Cronaca degli anni passati, di Nestore di Pečers’k (1056-1114). Particolare miniatura dal Manoscritto di Radziwill.
Tutti gli argomenti della recente conferenza stampa ‘Linea diretta’, tenuta a Mosca da Vladimir Putin il 19 dicembre scorso (A. D. 2024), sono già stati abbastanza sufficientemente analizzati e commentati dagli ‘addetti ai lavori’, a seconda delle differenti prospettive inerenti alle proprie competenze.
L’occasione ha infatti offerto lo spunto per un ampio ventaglio di interessanti considerazioni, le quali si sono tra l’altro incentrate soprattutto su tematiche di geopolitica internazionale, ma anche di politica ed economia interna alla Federazione Russa e persino di sanità, legata all’uso dei vaccini.
Esulando dalle nostre peculiari e più immediate pertinenze, noi Cavalieri del Sodalitium Equitum Deiparae Miseris Succurrentis non intendiamo affatto qui ritagliarci uno spazio ove aggiungere alcunché a suddette considerazioni. Ciò che ci sentiamo direttamente chiamati a fare, piuttosto, è porre nella debita luce un ‘filo rosso’ che abbiamo colto come comunemente sotteso alle parole di Putin: uno spirito di fondo chiaramente rappresentativo di una qualità, di un’indole, di un’essenza informata alla più pura etica ‘cavalleresca’ e che è da noi oggi riconosciuta come propria della Russia, attraverso il suo Presidente.
A nostro modo di vedere, tutta l’ideologica propaganda occidentale, che non ha mancato di fare da contraltare alle senz’altro più serie e costruttive summenzionate considerazioni, invece che spendere il proprio tempo ad imbastire le usuali critiche ‘russo-fobiche’, irridenti e menzognere, dovrebbe piuttosto domandarsi quali siano le differenze che a tutt’oggi evidenziano l’inferiorità ontologica, spirituale e socioculturale dell’Occidente rispetto alla Russia. E ciò, soprattutto, alla luce della rovinosa implosione che a breve attende l’Occidente stesso, a motivo della ‘vacuità’ che il suo modello di civiltà ha oramai raggiunto nella propria struttura (effimera quanto a forme e contenuti), dacché definitivamente priva di ogni riferimento e contatto con la propria tradizione puramente ‘europea’ e, in special modo, con i ‘valori eterni’ di cui questa per secoli è stata veicolo.
Ciò che a noi sta a cuore è l’Europa nella sua vera ‘identità’: ossia una civiltà che torni ad essere coerentemente sé stessa in quanto ‘consacrata, imperiale e cavalleresca’; riprendendosi quanto le è stato sottratto da quella parodia che oggi ne pretende di portare il nome.
L’etica cavalleresca
Le qualità etico-morali che contraddistinguono la Cavalleria, quando rispettosa del suo vero spirito tradizionale (quello risalente all’Età di Mezzo, per intenderci), sono innumerevoli e, d’altronde, usualmente abbastanza note. Seppur espresse nel tempo con diverse sfumature, comunque esse hanno sempre direttamente tratto la propria ragion d’essere dalle tre virtù teologali (fede, speranza e carità) e dalle quattro cardinali (giustizia, prudenza, fortezza e temperanza); sicché, le virtù cavalleresche si costituiscono in verità come un continuo rimando ad esse.
Il filosofo e mistico catalano Raimondo Lullo (1232-1316), nel suo fondamentale trattato Libro dell’Ordine della Cavalleria, ci indica come il Cavaliere, la cui nobile dignità lo pone al di sopra di qualunque altro essere umano, per essere pienamente tale deve comportarsi in maniera puntualmente “giusta, veritiera, pura, coraggiosa, leale, generosa, ardita ma non temeraria, scevra dalla passionalità, umile e non orgogliosa, zelante, diligente, obbediente, fedele, disinteressata nel servizio, protettiva verso i deboli e gli indifesi, misericordiosa con i pentiti, ferma contro i malvagi impenitenti e tutti i nemici di Cristo, forte nelle avversità, moderata nei costumi, non attaccata ai beni materiali, disposta al sacrificio di sé”[1].
Ad ogni modo, va precisato che tutte queste virtù ‘essenziali’, e tutte le altre non menzionate, trovano poi nell’‘onore’ una superiore, propria sintesi distintiva; in maniera tale che esso rappresenta, in definitiva, la caratteristica più peculiare dell’‘essere Cavaliere’.
L’onore: sintesi delle virtù cavalleresche
La particolarità dell’‘onore’ consiste nel fatto che prima di significare un ‘riconoscimento’ altrui, proveniente cioè al Cavaliere dal suo esterno, esso è qualcosa che in verità deve far già parte della sua intima costituzione ontologica: della sua ‘essenza’. L’‘onore’ è pertanto un vincolo che si stabilisce tra quelli che sono i rispettosi ‘riconoscimenti’ esteriori, resi al Cavaliere, e la sua particolare ‘dignità’ interiore. La ragguardevolezza di tale ‘virtù’ deriva, insomma, dall’essere contemporaneamente ‘obiettivo e strumento’: il che stabilisce, in chi lo detiene, la capacità di assumere uno status ontologico veramente di ‘privilegio’.
Quest’ultimo termine, inteso nel suo senso etimologico (lat. privilegium: privus + lex), letteralmente significa infatti ‘legge eccezionale che riguarda uno solo’; il che, oltretutto, gli dona pure un ‘diritto di precedenza’. Questa ‘unicità’ è data dalla possibilità, per colui che la possiede, di ottenere di riflesso ‘ciò che egli già è’ per propria reale ‘essenza’ (e certamente non mai per un suo mero ‘infingimento’).
In definitiva, il vero Cavaliere, sulla base di un ‘circolo virtuoso’, ottiene ‘onore’ perché egli è ‘conforme’ con esso.
«Derivando dal lat. honos, ‘onore’ si presenta posto in diretta reciprocità con honestas; per la qual cosa l’‘onesto’ è ‘colui che possiede onore’.
In effetti, secondo la sensibilità antico-romana, l’‘onestà’ non si connota solo come un aspetto di carattere prettamente morale, ma mantiene un più originario riferimento ontologico attinente alla condizione propria di ‘chi è conforme con il Logos’: honestum, infatti, è ‘ciò che è bene, buono e bello’.
Honos era peraltro una delle divinità allegoriche dei Romani, collegata a Marte e particolarmente onorata: sia da sola che con la Virtus. Quest’altra divinità, a propria volta, indicava non la ‘virtù’ genericamente intesa, quanto piuttosto il ‘valore in guerra’ (da lat. vir ‘forza, potenza’). L’onore era insomma particolarmente caro ai soldati e indicava un modello di ‘virtù’ essenzialmente di tipo guerriero.
Honos, inoltre, presenta chiara implicazione con un altro termine latino: onus, il quale significa ‘peso, fardello, carico’ ed anche ‘impegno’.
Ciò non risulta in contraddizione con quello che è l’oneroso ruolo ‘sacrificale e di tutela’ che è proprio dell’azione del Cavaliere, giacché tale ‘impegno’ esprime tanto la sua ‘adesione ad un obbligo faticoso’, quanto il ‘fervore’ con cui egli porta a compimento l’obbligo medesimo.
Non sarà d’altronde un caso che col verbo lat. pango (da cui ‘patto’ o ‘pace’), così come col verbo gr. pegnymi (πηγνυμι), entrambi i quali hanno relazione etimologica con ‘impegno’, si intendano significati come ‘fermare, consolidare, fortificare’ ed anche ‘rendere solido, gelare, coagulare’.
In altre parole, la funzione cavalleresca svolge proprio un ruolo di ‘custodia, protezione, mantenimento’ della Tradizione, difendendola da ogni contaminazione che, mirando a renderla ‘fluida e cangevole’, la priverebbe di quell’intimo e saldo contatto che sempre essa mantiene con la Verità.
In definitiva, l’‘onore’ risulta essere la caratteristica del Cavaliere che ne denota altresì il grado di nobiltà. Ed è possibile cogliere tale sfumatura tramite le accezioni presenti nella parola τιμη (timé), che ne è la traduzione greca, e la quale esprime, quale sinonimi di ‘onore’, anche i significati di ‘stima, prezzo, valore, dignità, signoria’.
Ancora una volta, insomma, prima di costituire un’evenienza che gli provenga dall’esterno, l’‘onore’ del Cavaliere è da intendersi nel senso di quella che è la sua vera e propria virtus interiore, facente parte cioè della propria ‘essenza’.
Ciò giustifica tutta la profonda coerenza e scrupolosità che egli deve mantenere, affinché ogni suo atto, ogni sua parola, ogni suo pensiero, non debbano mai fuoriuscire dai doverosi ambiti di ciò che è ontologicamente ‘onorevole’.
L’‘Identità Cavalleresca’, lo ribadiamo, si realizza tramite l’adesione, l’‘identificazione’ appunto, che il Cavaliere si sforza di realizzare e mantenere tra la propria essenza e l’Essere.
Ne è un chiaro esempio quello secondo cui al Cavaliere basta la propria ‘parola d’onore’ per mantenere indissolubilmente fede ad un ‘patto’. Finanche nel momento in cui ciò possa costituire per lui un doloroso svantaggio, egli non ingannerà mai nessuno venendo meno alla parola data, dacché il suo ‘onore’ non glielo permetterà.
Piuttosto, chi veramente ‘si inganna’ sono tutti coloro che giudicano tale suo zelo cavalleresco come una propria debolezza. Secondo gli ‘ignobili’ e gretti comportamenti di costoro, infatti, così ricorrenti negli odierni tempi di anticristica ‘decadenza’ in cui vige l’usuale e comoda prassi della menzogna, l’estrema adesione ad una parola d’onore mancherebbe di ‘concreto realismo’. Ma ciò non può mai addirsi ad un Cavaliere, in quanto egli non agisce mai per un dovuto, proprio tornaconto personale»[2].
L’onore di Putin
Estrapolando anche solo due particolari passaggi della conversazione tenuta dal Presidente della Federazione Russa, durante la ‘Linea diretta’, ci è possibile apprezzare quanto l’etica che li impronta sia in linea con quello che abbiamo appena definito essere l’‘onore cavalleresco’.
Molto in sintesi, si tratta di due affermazioni, fatte da Putin, a riguardo di alcuni atteggiamenti mantenuti dalla Russia nei confronti dell’Ucraina, nel contesto della Operazione Militare Speciale.
Ad una domanda in cui gli si chiedeva come mai fosse contrario ad includere Kiev nella lista dei ‘paesi non amichevoli’, egli ha risposto che ciò è motivato dal fatto che ucraini e russi (così come pure i bielorussi) sono un unico popolo. Ne deriva, quindi, che coloro contro cui Putin combatte non sono in realtà i civili ucraini (invero, parte debole ed indifesa dello Stato), bensì i loro corrotti governanti e le lobbies ebraico-sioniste a cui costoro appartengono.
Con un’ulteriore domanda, gli si faceva poi notare, quasi con sorpresa, che nonostante la Russia sia stata fatta obiettivo di vari attacchi ‘terroristici’ di matrice palesemente ucraino-occidentale, tuttavia essa non ha mai risposto con una durezza proporzionata e speculare alla violenza subìta. Il Presidente ha allora spiegato che, tra le altre cose, ciò significherebbe porre in cattiva luce la Russia agli occhi dei suoi partners nei BRICS (con cui sta lavorando per costruire un genuino ‘multipolarismo’, in alternativa all’‘unipolarismo’ occidentale), i quali da essa si aspettano, invece, comportamenti geopolitici che non ricalchino le brutalità, i soprusi, gli intrighi, le imposture e tutto quel subdolo modus operandi tipico degli anglosassoni e delle loro oligarchie.
Bisogna sottolineare, dunque, che quello che molti propagandisti occidentali hanno voluto leggere come il sintomo di una ‘debolezza’ della Russia, in realtà rappresenta la sua forza etica, il suo ‘onore’; ed è solo sulla base del ‘circolo virtuoso’ inerente a quest’ultimo che essa Russia può ambire a sconfiggere quei geopolitici ‘circoli viziosi’ che, a cominciare dall’Europa, sempre più vorticosamente intendono condannare il mondo a guerre e genocidi, alla perdita delle libertà, allo strapotere dei pochi sui molti pur sotto le mentite spoglie della democrazia: in una parola, all’‘anticristo’.
Del resto, quale sia tra Russia e Occidente la civiltà che crede fermamente nel valore della propria ‘parola d’onore’, lo attesterebbe anche solo il ricordare quale tra le due abbia voluto consapevolmente tradire i patti sanciti con i due trattati di Minsk!
Ma vogliamo ribadirlo: in virtù di quel ‘circolo virtuoso’ di cui si è detto, colui che mantiene interiormente l’‘essenza’ di un eccezionale ‘onore’ è già ‘ontologicamente’ posto nella condizione di ricevere ‘onore’, per riflesso e inevitabilmente, dal suo esterno.
Una prova? Nonostante l’Ucraina abbia inopinatamente invaso alcuni territori della regione russa di Kursk, nell’agosto scorso, tale incursione non solo si è dimostrata priva di alcuna utilità strategica per Kiev e non ha creato eccessivi problemi militari per Mosca, ma ha addirittura paradossalmente aiutato Putin a guadagnare ancor più seguito ed approvazione da parte di tutto il popolo russo, a riguardo delle sue scelte relative all’attuazione dell’Operazione Militare Speciale.
Conclusioni
Non è affatto un caso che nello stemma di Mosca (ed anche della Russia) sia raffigurata l’icona di S. Giorgio e il drago: immagine tipicamente ‘equestre’.
Lo spirito che informa l’odierna Russia è infatti quanto di più unicamente prossimo alla tradizione imperiale-cavalleresca sia oggi vivo in Europa; e si ingannano coloro che, per malafede o per ignoranza, vedono ancora nella Federazione Russa la presenza di un improbabile retaggio sovietico.
Forse è ormai giunto anche il tempo di leggere sotto una ben differente ottica la notissima profezia di Nostradamus, peraltro ribadita più recentemente – e più o meno negli stessi termini – persino da un insospettabile S. Giovanni Bosco. Questi così descrisse, infatti, un proprio sogno profetico: “I cavalli dei Cosacchi si abbevereranno alle fontane di S. Pietro”[3].
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, di tale profezia si è messa da parte l’annosa connotazione interpretativa secondo cui il ‘pericolo russo-comunista’ avrebbe prevalso sulla cattolicità. Probabilmente, quei ‘cavalli’ non hanno mai rappresentato una minaccia, quanto piuttosto uno spirito, un’etica, un’essenza che Roma (in senso lato) deve recuperare, deve far tornare a sé da lì dove essa ancora permane attiva. Una tradizione che essa ha smarrito e che deve rinnovare quanto prima, per non decadere rovinosamente.
Certo, stiamo parlando della parte orientale dell’Europa, ovvero di una tradizione più precisamente ‘euroasiatica’. Ma quanto stimolo e supporto può essa offrire, affinché anche la parte occidentale del continente europeo recuperi la propria vera ‘identità’!
D’altronde, l’immagine dei Cosacchi che vengono ad abbeverarsi a S. Pietro, potrebbe addirittura anche assumersi secondo un ribaltamento di senso: non si tratterebbe più di un’invasione, ma di un desiderio di ‘recupero’, da parte dell’‘ortodossia’ stessa, della propria ‘comune appartenenza’ alla medesima Chiesa di Cristo, di cui è membra alla pari della ‘cattolicità’. Tutto ciò, non certamente in vista di una ‘riunione’, ma per stabilire finalmente, tra le ‘due metà’ dell’Europa e della Chiesa, quella fruttuosa ‘sinergia’ purtroppo mancata nel corso dei secoli.
Del resto, proprio a tal proposito – e per voler seguitare nel prestare attenzione ai ‘segni metastorici’ – è allora sintomatica la presenza ‘speculare’ di un’altra profezia; essa riguarda, questa volta, la città di Mosca e la pone in una stretta correlazione con Roma.
Si tratta di un vaticinio formulato da tre differenti figure sacerdotali, ma su un comune tema: Pio XII, p. Massimiliano Kolbe e il vescovo Fulton Sheen. Essi previdero, rispettivamente, che il Cuore Immacolato di Maria avrebbe salvato la Russia, sì che il fulgore della sua fede si sarebbe visto da Oriente a Occidente; che un giorno la statua dell’Immacolata sarebbe stata eretta sul Cremlino; che la Piazza Rossa sarebbe stata dedicata alla Madonna, col nuovo nome di Piazza Bianca.
Onore, dunque, alla Russia! E onore al suo Presidente, il quale, forse non a caso, è nato proprio nella fatidica data del 7 ottobre: giorno della Madonna della Vittoria e del S. Rosario.
[1] Cfr. R. LULLO, Libro dell’Ordine della Cavalleria, Ed. Arktos, Torino 1994, p. 199 sgg.
[2] C. INTINI, Codice di Identità Cavalleresca, Cinabro Edizioni, Roma 2024, p. 68 sgg.
[3] Cfr. Memorie biografiche di don Bosco.
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Idee & Azione (01.01.2025)