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Lo creò maschio e femmina (a cura della Redazione).

La creazione della donna, bassorilievo protiro Basilica di S. Zeno, Verona, 1138

 

Tre sono i quesiti a cui ci preme rispondere:

  1. Sussiste una qual funzione della “donna” che possa esercitarsi in un contesto di militia, nonostante questa sia esclusivamente riservata alla componente maschile?
  2. E se esiste, quale può essere?
  3. Che cosa la giustifica e le dà senso?

Per cominciare, val la pena riflettere sulle seguenti parole, tratte dal romanzo storico sulla battaglia delle Termopili “Le porte di Fuoco”, di Steven Pressfield.

A seguire, alcune considerazioni; ognuno, poi, potrà trarne le dovute conclusioni.

 

*****

 

Le Porte di Fuoco 

«Che cosa aveva detto il re spartano a proposito del coraggio delle donne, e come narrò tale episodio il tuo maestro ai suoi giovani amici e protetti?»

Xeone si tirò su con evidente sforzo, assistito da me e dagli altri ufficiali, riunì le forze che gli rimanevano e con un grosso sospiro cominciò.

Vi racconterò questa storia, amici miei, nello stesso modo in cui il mio maestro la raccontò a me, ad Alessandro e Aristone alle Porte di Fuoco; e cioè non con le sue parole, ma con quelle di Paraleia, la madre di Alessandro, la quale la raccontò a Dienece e Arete nella stessa giornata in cui l’episodio era accaduto.

Tutto questo era avvenuto una sera, tre o quattro giorni prima che l’esercito partisse da Lacedemone per dirigersi alle Termopili. A questo scopo, Paraleia era andata a casa di Dienece e Arete, portando con sé altre donne, tutte madri e mogli dei guerrieri scelti fra i Trecento. Nessuna di loro, però, aveva idea di ciò che Paraleia dovesse dire. Il mio maestro si era alzato, chiedendo scusa, e aveva fatto per andarsene, in modo da dar agio alle donne di essere sole. Paraleia, invece, gli aveva chiesto di rimanere, dicendo che anche lui doveva ascoltare quanto avrebbe detto. Le donne si erano sedute intorno a Paraleia, che aveva così esordito.

«Quel che sto per dire, Dienece, non dovrai raccontarlo a mio figlio. Almeno finché non sarete alle Porte di Fuoco, e anche allora, fa’ attenzione che sia il momento giusto: quando cioè sarà l’ora della tua morte o della sua. Sono certa che tu saprai quando tale momento sarà ormai prossimo. Adesso ascoltami attentamente, Dienece, e anche voi, donne.

«Questa mattina sono stata convocata dal nostro re. Sono andata immediatamente, presentandomi nel cortile della sua casa. Sono arrivata in anticipo; Leonida era ancora fuori, a preparare tutto per la sua marcia. Sua moglie Gorgo, invece, era seduta all’ombra di un albero, e qualcosa mi ha detto che tutto questo non era affatto casuale. Mi ha salutato e mi ha invitato a sedermi. Eravamo da sole, senza attendenti o servitori.

«“Di sicuro ti chiederai, Paraleia”, ha cominciato, “il motivo per il quale mio marito ti ha mandata a chiamare. Te lo spiegherò io. Lui vuole parlare al tuo cuore, e a quello che immagina sia il tuo rancore di fronte a quella che tu ritieni l’ingiustizia di essere stata scelta, per così dire, per sopportare un dolore doppio. Lui sa benissimo che l’aver scelto Olimpio e Alessandro fra i Trecento significa averti derubato per due volte, di un marito e di un figlio, lasciando solo il piccolo Olimpio a portare avanti la stirpe. Di questo ti parlerà quando arriverà. Però io volevo parlarti in privato, da donna a donna.”

«È giovane, la nostra regina, alta e bella, anche se nell’ombra mi è apparsa un po’ troppo seria e cupa.

«“Io sono stata figlia di re prima di essere moglie di re”, ha detto Gorgo. “Molte donne mi invidiano, ma poche capiscono la durezza della mia posizione. Una regina non può essere una donna come le altre. Non può possedere suo marito e i suoi figli come le altre mogli e le altre madri, ma li ha soltanto in consegna, in custodia per conto della sua patria. È ai suoi compatrioti che deve pensare, non al marito e ai figli. Ora anche tu, Paraleia, sei chiamata a questa severa sorellanza. Dovrai assumerti questo dolore al mio fianco. È questo il tormento e il trionfo delle donne, decretato dagli dei stessi: convivere con la pena, sopportare il dolore, accettare il giogo della sofferenza e trasmettere così agli altri il proprio coraggio.”

«A sentire queste parole, ti confesso, Dienece, e lo confesso anche a voi, amiche mie, che le mani hanno preso a tremarmi così tanto che non ero certa di riuscire a fermarle: non solo per la consapevolezza del mio dolore, ma anche per la rabbia, una rabbia cieca e amara verso Leonida e la spietatezza con cui mesceva quel doppio calice amaro. Perché proprio io? Gridava il mio cuore nell’angoscia. Stavo giusto per dar voce a quel mio tormento interiore, quando ho sentito il rumore del cancello esterno che si apriva e ho visto Leonida entrare nel cortile. Era appena tornato dal campo dove si teneva l’adunata e in mano aveva i calzari pieni di polvere. Vedendo sua moglie e me impegnate in una fitta conversazione, ha immaginato immediatamente l’argomento del nostro parlare.

«Si è scusato del ritardo e si è seduto: mi ha ringraziato per la puntualità e mi ha chiesto di mio padre, che è ancora convalescente, e dei miei familiari. Naturalmente il nostro re ha mille pensieri e mille preoccupazioni riguardo all’esercito e alla nostra città, e anche lui pensa alla morte imminente e al dover lasciare moglie e figli; ma quando si è seduto al mio fianco ha allontanato dalla mente tutti questi pensieri, concentrandosi su di me e su quel che aveva da dirmi.

«“Tu mi odi, donna? Sono state le sue prime parole. “Se fossi nei tuoi panni, mi odierei. Le mie mani tremerebbero di rabbia repressa.” Ha liberato un posto sulla panca accanto a sé. “Vieni, figliola. Siediti qui vicino a me.”

«Ho fatto come mi diceva, e Gorgo si è spostata vicino a me. Sentivo l’odore del sudore del nostro re, e il calore della sua pelle così come da bambina avevo sentito quello di mio padre quando qualche volta mi aveva tratto vicino a sé. Di nuovo ho provato dentro il mio cuore un’ondata di rabbia e di dolore che minacciava di farmi perdere il controllo, e l’ho ricacciata indietro con tutte le mie forze.

«“Tutta la città non fa altro che parlare e speculare”, ha ripreso Leonida “su coloro che ho scelto per far parte dei Trecento. Li ho scelti per il loro valore individuale come soldati? Non può essere, perché tra campioni come Polinice, Dienece, Alfeo e Marone, ho nominato anche giovani come Aristone e il tuo Alessandro… Forse, così si mormora, ho visto qualche sottile alchimia in certe strane combinazioni. Forse sono stato ingannato, forse dovevo un favore a qualcuno. Non dirò mai a nessuno il criterio con il quale ho scelto i Trecento. A nessuno, tranne che a te.

«“Li ho scelti non per il loro valore, donna, ma per le loro donne.”

«A queste parole del re un grido di angoscia mi è sfuggito dal petto, perché prima che potesse parlare avevo già capito che cosa mi avrebbe detto. Ho sentito la sua mano sulla mia spalla, ho sentito la sua stretta che mi confortava.

«“L’Ellade sta vivendo un momento di pericolo. Se troverà la salvezza, non sarà certo alle Porte (là ci aspetta soltanto la morte, nostra e dei nostri alleati), ma in seguito, in battaglie future, battaglie terrestri e navali. Con l’aiuto degli dei, troverà solo allora la via della salvezza. Lo capisci questo, donna? Bene. Ascoltami attentamente adesso.

«“Quando la battaglia sarà finita, quando i Trecento saranno morti, allora tutta l’Ellade guarderà gli spartani per vedere come essi sopportano un evento del genere.

«“Ma chi guarderanno gli spartani donna? Guarderanno te. Te e le altre mogli, le altre madri, le sorelle e le figlie di coloro che saranno caduti.

«“E se vi vedranno sconvolta dal dolore, in lacrime, anche loro si sconvolgeranno e piangeranno. E l’Ellade tutta si sconvolgerà. Ma se invece voi resterete composte nel vostro dolore, rimarrete con gli occhi asciutti, accettando la perdita dei vostri cari con sprezzo della sofferenza e come un onore che risiede nella verità, allora Sparta resisterà. E con lei, tutta l’Ellade.

«“Perché ho scelto te, donna, per sopportare questa che fra tutte le prove possibili è la più dura, la più difficile, perché ho scelto proprio te e le tue sorelle dei Trecento? Perché voi siete in grado di farlo.”

«Dalle mie labbra sono scaturite parole di rimprovero per il re: “Ed è questa la ricompensa per la virtù delle donne, Leonida? Essere colpita due volte nei miei affetti, e sopportare un dolore doppio?”

«A queste mie parole subito la regina Gorgo si è fatta avanti per offrirmi il suo conforto, ma Leonida l’ha fermata con un gesto. Tenendomi sempre la spalla con una calda stretta, ha risposto al mio sfogo di angoscia.

«“Vedo mia moglie che con la sua presenza stessa vorrebbe trasmetterti la consapevolezza di quel fardello che lei, senza mai una parola di rammarico, porta da una vita. Mai in vita sua le è stato concesso di essere semplicemente la moglie di Leonida: lei è sempre stata la moglie di Lacedemone. Ed ora è questo il tuo ruolo, donna. Tu non sei più moglie di Olimpio e madre di Alessandro, tu sei moglie e madre della nostra città. Tu e le tue sorelle dei Trecento siete ora le madri di tutta l’Ellade, e della libertà stessa. È questo il crudo dovere, Paraleia, cui ho chiamato la mia sposa diletta, madre dei miei figli, e al quale adesso chiamo te. Dimmi, donna. Mi sono forse sbagliato?”

«A queste parole del nostro re, sono crollata e mi sono messa a piangere. Leonida mi ha tratto a sé con grande delicatezza; io ho sepolto il viso sul suo petto, come fa una bambina con il padre, e mi sono messa a singhiozzare, incapace di controllarmi. Il re mi teneva stretta in un abbraccio che non era né duro né severo, ma infinitamente gentile e consolatorio.

«Come un fuoco che su un poggio alla fine brucia e si estingue, così il mio sfogo di dolore pian piano si è placato. Un senso clemente di pace è calato su di me, come un dono non solo di quelle braccia che mi stringevano, ma di qualche fonte più profonda, divina e ineffabile. Mi è tornata la forza nelle ginocchia e il coraggio nel cuore. Mi sono ricomposta e ho asciugato gli occhi. E gli ho rivolto una frase che non veniva soltanto da me, ma da qualche dea invisibile di cui non saprei individuare la fonte e la provenienza.

«“Queste sono le ultime lacrime, mio signore, che il sole illuminerà nei miei occhi.”»

(STEVEN PRESSFIELD, Le Porte di Fuoco, trad. di Luciana Bianciardi, Rizzoli, 1999, pp. 429-433)

 

*****

 

Lo creò maschio e femmina

Questo brano è tratto da un romanzo storico ambientato nell’Ellade dell’anno 480 prima di Cristo e, pur nella immaginazione della circostanza narrata, rende perfettamente la sostanza, la profondità, la potenza, la dignità, l’irrinunciabile fondamento ontologico della donna. Al contempo, offre le coordinate per il recupero, al femminile, di una consapevole dignità della propria natura e, nella porzione di tempo che Dio concede alle proprie creature, per il retto orientamento dell’esistenza rivelandone le sublimi potenzialità che, se non adeguatamente coltivate e realizzate, possono facilmente corrompersi in terribili e temibili forze insite in quella stessa natura.

Ripercorrendo con la mente la narrazione, come non andare con il cuore al Vertice della creazione, alla Donna vestita di Sole, alla Dama Celeste, alla Santissima Vergine Maria, a Colei che è chiamata dal Padre a sostenere e partecipare al Sacrificio salvifico del Figlio:

Stabat Mater dolorosa

iuxta crucem lacrimosa

dum pendebat Filius

[…]

Pro peccatis suae gentis

vidit Iesum in tormentis

et flagellis subditum

(beato Jacopone da Todi)

Maria santissima – eletta dall’Altissimo e provata dalla partecipazione alla Passione redentiva del Figlio – è l’archetipo metafisico, la elevazione assoluta a-temporale e, al contempo, storica della Donna in senso eminente: corredentrice, radice della vittoria temporale e spirituale, individuale e comunitaria, dell’Amore sulla morte, della Giustizia sulla perfidia, dell’Ordine sul caos.

Ma a noi uomini del XXI secolo e soprattutto a noi che abbiamo risposto alla chiamata della vocazione cavalleresca; a noi, Cavalieri, pur gravati dalle pesantissime scorie di un mondo sempre più perverso e innaturale nel quale il Signore, nella Sua imperscrutabile onniscienza, ci ha comunque posto e nel quale dobbiamo portare a termine il compito che ci ha assegnato; a noi che ostinatamente cerchiamo, per grazia divina, di tenere fisso lo sguardo verso la Luce (“Dio è Luce”, 1Gv 1,5); ebbene, il fatto narrato nel romanzo epico e, infinitamente più ancora, quanto considerato su Maria Santissima, fanno presente e ricordano il nostro ruolo e le nostre finalità, ammonendoci affinché non deviamo mai dal nostro dover essere uomini in senso eccellente.

«E disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza […] E Dio creò l’uomo a sua somiglianza: a somiglianza di Dio lo creò: lo creò maschio, e femmina» (Gen 1,26-27).

«Mandò adunque il Signore Dio ad Adamo un profondo sonno; e mentre egli era addormentato, gli tolse una delle sue costole e mise in luogo di essa della carne.

E della costola, che avea tolto da Adamo, ne fece il Signore Dio una donna: e la portò ad Adamo.
E Adamo disse: Questo adesso è osso delle mie ossa, e carne della mia carne, ella dall’uomo avrà il nome, poichè è stata tratta dall’uomo.

Per la qual cosa l’uomo lascerà il padre suo, e la madre, e starà unito alla sua moglie, e i due saranno sol una carne» (Gen 2,21-24).

Il Card. Antonio Martini (1721 – 1809) nelle sue note di commento alla Bibbia, a proposito di questo passo scrive:

«Un profondo sonno. Tale è il significato della voce originale, in luogo della quale i LXX traducono ‘estasi’. Adamo dunque in questo sonno mandatogli da Dio l’ha rapito fuor di se stesso, e coll’animo libero e sciolto dai sensi non solo vide quello, che Dio fece sopra di lui, ma ne intese ancora tutto il mistero. Egli in questo punto entrando nel santuario di Dio, ebbe l’intelligenza delle ultime cose, dice S. Agostino.

Gli tolse una delle sue costole, etc. Chi avrebbe immaginato nel Creatore una si straordinaria invenzione per formare una donna? Ma quanto così diviene sensibile la relazione tra la figura e la cosa figurata! Dorme Adamo (dice S. Agostino), affinché Eva sia formata; muore Cristo affinché sia formata la Chiesa; a Cristo morto è traforato il costato, affinché ne sgorgano i Sacramenti, pe’ quali si formi la Chiesa, Sent 328.

[…] Adamo riscosso dalla sua estasi mentre Dio presenta a lui la sua compagna, riconosce in essa un’immagine degna di se, e come un altro se stesso».

Immergiamoci ora solo un po’ nel mistero che il testo raffigura. Consideriamo che il termine ebraico tse’la (צֶלַע), tradotto da s. Girolamo con “costola”, non è mai reso con questo significato in tutti gli altri passi della Bibbia in cui viene usato. A seconda del contesto, esso viene piuttosto tradotto con “fianco”, “parte”, “lato”, “metà”; mentre, nella versione greca dei LXX, anche con “pleura, fianco” (πλευρά).

Spingendoci ancora oltre, secondo alcune ulteriori autorevoli interpretazioni a tse’la può anche darsi il senso di “parte dell’anima più vicina al cuore”: una parte, quindi, particolarmente nobile.

Il passo biblico rivela così, anche un più profondo significato: Adamo è in estasi, con l’animo vigile, libero da qualsiasi pesantezza, vede e comprende l’Opera dell’Onnipotente; “ebbe l’intelligenza delle ultime cose” e dalla sua “metà”, da una sua “parte”, da quella nobile parte, dalla parte della sua anima più vicina al cuore – la parte femminile del primo uomo? la qual cosa giustificherebbe il passo “lo creò [l’uomo, cioè l’essere umano] maschio, e femmina” declinato al singolare – l’Altissimo trasse la donna che egli, Adamo, riconobbe “come un altro se stesso”.

«[…] è questo il tuo ruolo, donna. Tu non sei più moglie di Olimpio e madre di Alessandro, tu sei moglie e madre della nostra città. Tu e le tue sorelle dei Trecento siete ora le madri di tutta l’Ellade, e della libertà stessa. E’ questo il crudo dovere […]». (Le Porte di Fuoco, op. cit.)

Facciamo l’uomo; […] lo creò maschio e femmina”. Adamo riconosce in essa un’immagine degna di se, e come un altro se stesso, la funzionalità reciproca; la realizzazione dell’uno nell’altra e dell’altra nell’uno; il sacrificio e la forza catalizzatrice; l’uomo dà e riceve, la donna riceve e dà; l’uomo offre la vita, la donna la genera; il Cavaliere e la Dama; l’Imperatore e la Virtù dell’Impero; il Sacrificio di Cristo e la nascita della Chiesa; l’Impero e la Chiesa: “e i due saranno sol una carne”.

L’unità è ricomposta!

 

In sogno mi parea veder sospesa                

un’aguglia nel ciel con penne d’oro,                                

con l’ali aperte ed a calar intesa

[…]

venne una donna, e disse: ‘I’ son Lucia:      

lasciatemi pigliar costui che dorme,

sì l’agevolerò per la sua via’.

(Dante, Commedia, Purg. IX)

«L’aquila, su questo non v’è dubbio, è simbolo dell’Autorità imperiale  […] L’azione dell’aquila era, in sogno, l’equivalente dell’azione di Lucia, e si svolgeva contemporaneamente a questa. Due azioni sincrone e parallele, ma l’una in rapporto con l’altra; identica la direzione (verso l’alto): evidente allegoria, ci pare, della funzione complementare dei due magisteri: temporale (Impero) e spirituale (Chiesa) […]»  (Dalle note di D. Mattalia alla Divina Commedia, Ed. Rizzoli, Milano).

Squarci di luce, bagliori sull’Assoluto…

E per dirla ancora con Dante (Par XXXIII):

Oh quanto è corto il dire e come fioco

al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,

è tanto, che non basta a dicer ’poco’.

Che altro? Nulla. C’è solo da cadere in ginocchio, uomini e donne, e con le lacrime agli occhi ringraziare il Signore per averci eletti a vertice del Suo creato e darci la possibilità di essere docili strumenti del Suo Disegno, contemplarne le meraviglie e poi, rialzatici, impugnare la Spada della Fortezza e, occupando ciascuno il proprio posto, schierarci sotto il Santo Vessillo dell’Altissimo…

«Beato chi trova in te la sua forza

e decide nel suo cuore il santo viaggio»

(Sal 83).

Maurizio Angelucci