Dante e Virgilio – Gustave Doré, Incisione xilografica, incisa da Pisan, 1860.
Virgilio e l’Impero nella Commedia.
(Libero adattamento da: A. SCALI, Dante, Pietra d’Inciampo – Il Cinabro, 2008).
E’ stato giustamente osservato che il fecondo incontro di Dante con Virgilio si celebra nel segno della grande Tradizione imperiale romana di cui l’Eneide è paradigma insuperato: il potente afflato epico-religioso del grande poeta augusteo, congiunto alla larga e solenne celebrazione della missione provvidenziale affidata all’ Impero romano, viene proiettato sulle radici, sugli antefatti e sull’intero leggendario della fondazione dell’Urbe, per cui le umane contingenze, le imprese e le gesta in guerra e in pace, immerse in un clima di profonda sacralità, trascendono il dato storico, innalzandolo al piano della missione redentrice di Roma. Ed è tale metastorica realtà che viene assunta nella Commedia attraverso la figura di Virgilio, così da costituirne la vera dorsale, motivo per cui va completamente ridisegnato il senso, la funzione e il simbolo che il Vate romano incarna nel poema dantesco, vista la sciagurata lettura che del Personaggio comunemente si dà[1].
E tuttavia, ben poco dell’Eneide si sarebbe salvato agl’occhi di Dante se l’aspetto parenetico della celebrazione non fosse scaturito dal reale incardinamento del Romanesimo nel contesto della Tradizione universale, per quanto specificamente attiene al ‘Mistero Imperiale’, secondo le forme proprie del ‘paganesimo’. L’incardinamento, come ben sanno i lettori di Virgilio, avviene attraverso il descensus ad inferos perché ivi, fuori dal tempo e dallo spazio umani, viene conferita la superiore legittimazione all’impresa di Enea, e con ciò, a quanto quell’impresa è destinata a produrre.
In tal senso, basterà ricordare l’attenta cura di Virgilio a ché l’Impero avesse un autentico fondamento iniziatico, ruolo che la Sibilla cumana incarnerà con autorevolezza e competenza. E’ lei infatti che detta le leggi del viaggio oltremondano; ella saggia la qualificazione dell’Eroe a intraprendere l’insidioso cammino (attraverso la ricerca del famoso “aureus…ramus”, quello che nelle Commedia diverrà la non meno famosa “verghetta”)[2]; ella ne regge la perigliosa visita nei regni oltremondani; e ancora lei pone Enea in condizione di conoscere la colpa atavica (la contaminazione del suo esercito), il futuro prossimo (“Bella, orrida bella…cerno”), l’esito finale della visita, conclusa dalla paterna rivelazione della missione fatale di Roma e dei compiti connessi: “Tu regere imperio populos, Romane, memento /hae tibi erunt artes -pacique imponere morem / parcere subjectis et debellare superbos”[3]. Su tale impianto si innesta il particolare contributo offerto da un autorevole studioso della latinità, E. Paratore, il quale dimostra[4] come sia stato proprio Virgilio a creare la leggenda di una Sibilla presente a Cuma prima dell’approdo di Enea in Italia, forzando il dato tradizionale secondo cui ella sarebbe stata coeva di Tarquinio il Superbo (dunque, ben più tarda), cui infatti avrebbe venduto i libri sibillini. Dante avrà sicuramente ignorato l’illuminante particolare rivelato dal Paratore, ma non può aver ignorato che la profetessa è la ierofante di Apollo, il dio che in un celebre passo del VI dell’Eneide (vv. 77-83) “invade” la sacerdotessa perché dia l’oracolo al Troiano, quel medesimo dio solare cui il Fiorentino dedica un’alta invocazione proprio nella prolusione al Paradiso (I, 13-15 e 22-24):
O buon Appollo, all’ultimo lavoro
Fammi del tuo valor sì fatto vaso
Come dimandi a dar l’amato alloro….
—————————–
O divina virtù, se mi ti presti
Tanto che l’ombra del beato regno
Segnata nel mio capo io manifesti…
Quell’Apollo, su cui trova fondamento iniziatico il poema virgiliano, riceve qui formale riconoscimento da Dante che non si perita, nell’ambito della replica dell’invocazione, di pareggiarlo alla “divina virtù”: evidente l’intenzione dantesca di coonestare la Tradizione ‘pagana’ accostandola al metafisico cristiano. L’altissimo crisma riconosciuto da Virgilio all’Impero romano verrà infatti a costituire la premessa -integralmente svolta nel De Monarchia e nel poema – della sacralizzazione da Dante conferita al Sacro Romano Impero, e con ciò alla dottrina dell’Impero, che si sviluppa come struttura interna della sua opera, e chiave di volta per la sua interpretazione.
A voler fare piena luce sull’intera questione, c’è da richiamare quel mito della perdita dell’Eden – o del reame- a causa di una ‘colpa’ che, presente nelle saghe del Graal e in quelle celtiche, perfettamente congruisce con la narrazione biblica. Alle dette conoscenze, incentrate sulla medesima metastorica realtà, partecipa anche la Tradizione romana, secondo quanto testimonia il Vate latino, con un messaggio che l’Alighieri integralmente raccoglie. Infatti, se andiamo con la memoria al poema virgiliano, anche lì troviamo – sussunto dal mito greco – che l’antica colpa di Laomedonte, fondatore di Troia reo di yůbris (violenza, empietà) verso Apollo e Poseidone determina la fine della città per cui Enea, semidio in quanto figlio di Venere, riceve dalla madre sua celeste la rivelazione dell’ineluttabile condanna di Troia e l’ordine di abbandonare tutto – con un pugno di guerrieri – onde cercare la Terra Promessa (antiqua mater, nella polisemica espressione virgiliana): ivi dovrà fondare la città eterna stabilita dagli dei[5].
Sfugge a qualcuno l’analogo tracciato della Commedia? Anche il Pellegrino, per l’intervento della Vergine – la Madre celeste – si troverà a dover abbandonare tutto – il suo io umano – diretto alla sua Terra Promessa, la Città eterna, a causa di una colpa antica (la “culpa vetus” dell’Ep. V,18, di Dante), e se alle sue spalle non si avverte il rombo corrusco di una città in fiamme, pure non mancano le spaventose ombre di “una selva oscura… e aspra e forte… che poco è più morte”, dove spenta è la luce della vita[6]. E se Virgilio prosegue narrando le forze disperse dalla tempesta e l’approdo dei profughi nella città di Didone, la cui insidia (diretta alla castitas per il cedimento alle lusinghe dell’io) Enea supererà per l’intervento della madre, in stretta analogia troviamo nelle Commedia le sconcertate forze di Dante che si raccolgono dinanzi all’insidia della Lonza (e siamo sempre in zona castitas), superata in ragione dell’apparizione del Sole e delle “stelle/ ch’eran con lui”, tra le quali non è difficile -all’alba- riconoscere Venere[7] (Inf. I, 37/43).
Alla luce delle sintonie che si registrano tra le conoscenze celtiche, greco-romane e cristiane, risulterà chiaro che l’intero Occidente trova la sua più vera e profonda unità in un unico mito cosmogonico (la creazione), e in particolare proprio in quello antropogonico, rappresentato dalla vicenda di Adamo e della sua ‘colpa’; e poichè al medesimo mito (qui infatti le radici dell’unità delle tre religioni) attinge anche il Corano, ecco che anche il mondo islamico si integra armonicamente – con le sue proprie peculiarità – nell’unitario canone di quella Tradizione che oggi chiamiamo occidentale, in virtù della ri-fondazione attuata dal Cristo e della gestione terrena affidata all’Impero romano. Così stando le cose, né aberrante deve apparire la mutuazione islamica presente nella Commedia, né può passarsi sotto silenzio la valenza occulta introdotta dalla figura di Virgilio (e si ricordi che nel testo islamico c’è un’unica guida per la visita dei tre regni – Gabriele -, mentre nel poema dantesco sono tre, e dunque ciascuna con specifico ruolo), così da illuminare la funzione che il romanesimo svolge nell’architettura della Commedia, argomento che, in relazione alle inattendibili deviazioni esegetiche ancora in uso, va qui più energicamente incalzato.
Abbiamo visto come Virgilio, vate del sacrum legato all‘Imperium, assuma nell’itinerario oltremondano il ruolo di psicopompo, sostenendo e proteggendo il suo pupillo nel mondo infero e animico dell’uomo: la vittoriosa risoluzione di questo viaggio consente a Dante l’approdo al Paradiso Terrestre, e dunque la realizzazione della sua perfetta regalità (“per ch’io te sopra te corono e mitrio” proclamerà Virgilio in Pg. XXVII 142), cui inerisce, seppure ancora virtualmente, il crisma della perfezione spirituale (e mitrio). E che tale traguardo venga conseguito tramite l’assunzione della Tradizione romana non è solo pacifico, ma anche di esplicita evidenza: altrimenti, perché proprio Virgilio e non s. Agostino, o s. Tommaso (la teologia), o magari Aristotile (la filosofia)? E soprattutto, perché non Beatrice, simbolo del sapere iniziatico?
Forse in Virgilio c’è da cogliere un messaggio ben più sottile.
In effetti, sulla testimonianza dell’Eneide, Dante riconosce l’identità sostanziale di tutte le espressioni sapienziali, dalle più antiche, ebraiche e cristiane, a quelle più recenti (islamiche), concordi nell’affermare che la restaurazione spirituale dell’uomo non si compie se sulla terra non appare un re legittimo a strapparlo dalla derelizione cui la colpa cosmica lo destina, e che pertanto non si perviene al Regnum (Gerusalemme celeste) se prima non si realizza l’Imperium (Gerusalemme terrestre). Tale conquista si è effettualmente compiuta in Occidente nel quadro della Tradizione romana[8], di cui Enea è esatto paradigma, in forza della quale Roma poté ricevere il mandato per la realizzazione di un Impero legittimo (Tu regere imperio populos), unificando i popoli nel segno della giustizia (pacique imponere morem): è esattamente quello che manca al mondo di Dante, e perciò a Virgilio, ovvero alla dottrina tradizionale di cui è figura, il Fiorentino apertamente affida il compito di ricondurre l’uomo decaduto alla primigenia regalità (il paradiso terrestre, in termini biblici), a lui attribuendo le facoltà idonee a vincere i demoni (debellare superbos, nel suo anfibologico significato), nonché l’attitudine a risparmiare i docili (párcere subiectis) – come nella Commedia le anime purganti – onde spianare all’uomo e al mondo la via per il Regnum: e infatti ‘párcere’ e ‘debellare’ vengono assunti quali parametri di una giustizia al tempo stesso umana e divina[9], tanto nell’Eneide quanto nella Commedia. In assenza dei quali parametri, avverte Dante, il traguardo della Gerusalemme celeste appartiene a quelle pie intenzioni di cui è notoriamente lastricato l’ingresso dell’inferno.
All’uomo e al mondo, dicevamo: al primo, perché il messaggio più diretto che il poema lancia è soteriologico, rivolto cioè alla singola coscienza in funzione della salvezza individuale; al secondo perché la valenza universale concordemente riconosciuta alla Commedia è il riflesso purissimo della Tradizione unica declinata nella sua dinamica escatologica che esige l’unione, sotto un unico impero, di tutti i popoli affratellati dal medesimo mito cosmogonico (ritorna così, sia pure a livello virtuale, il sogno grandioso di Federico II) secondo lo spirito della Tradizione romana, quella che, promanando direttamente dalla Fonte unica, ha fattivamente incarnato in Occidente la regalità sacra secondo il modello eterno da cui procede. Questa divina elezione le discende perciò dall’universalità dei suoi simboli, fattualmente agiti nella realtà storica; dalla sua attitudine all’integrazione dei popoli, nel rispetto delle distinzioni funzionali all’unità; dalla perfetta disposizione guerriera vocata alla pietas, emblematizzata nell’Eneide nel suo eroe eponimo, e suggellata in perpetuo da quel “Tu regere imperio populos…”: qui Dante legge l’investitura romana a vicariare Cristo Re, qui il primo movente del paradosso dantesco “onde Cristo è romano” (Pg. XXXII,102), espressione in cui si raccolgono tutti i dati che sul tema etico-politico sono di volta in volta venuti a luce. Ricordiamone i più qualificanti.
Che i vicari di Cristo in terra debbano essere due, abbiamo colto sulle labbra di Dante[10]; che l’evangelico “Date a Cesare...” riconosca e confermi la legittimità, in ordine alla reggenza politica, del governo romano sul mondo di allora, non è discutibile; che tale legittimità abbia conferito perfetta validità formale-giuridica al sacrificio cristico attraverso Ponzio Pilato[11], fino ad assumere ruolo di partecipazione – tramite Cassio Longino – al sacrum di quell’evento, è dato acquisito; che, nella testimonianza di Matteo “Nolite putare quoniam veni solvere legem aut prophetas”[12], per legge debba intendersi l’etica tradizionale di quel popolo appare evidente ma, visto il carattere universale della Rivelazione, quel messaggio non può intendersi restrittivamente rivolto ai soli ebrei, mentre va esteso a tutte le leggi figlie di una Tradizione autentica, come è nel caso di Roma: ne fa fede quel “Date a Cesare...”, oltre alle significative espressioni paoline che parificano ebrei e ‘gentili’ nel quadro del Nuovo Testamento. Ne discende che l’etica tradizionale romana rimane confermata anche dopo l’avvento dell’Uomo-Dio, per cui Dante, interpretando il virgiliano “Parcere subiectis et debellare superbos” come sostanza dell’agire politico, principio etico legittimante l’Impero di Roma, correttamente lo estende al moderno Impero – Sacro e Romano – che, non si dimentichi, egli proprio per questo avverte in perfetta continuità con l’antico.
Se a tale semplice linea di fatti aggiungiamo l’avvenuta traslazione della Tradizione spirituale da Gerusalemme a Roma – simboleggiata anche dal trasferimento nell’Urbe della Menorrah – ove la cattedra di Pietro si è ininterrottamente trasmessa, risulta inoppugnabile tanto la legittimità del potere temporale quanto l’investitura a Centro spirituale del Cristianesimo. Non in relazione ad altro viene dall’Alighieri magistralmente sigillata siffatta realtà in quel “E sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano”, affermazione perentoria e sovrana del formale diritto di questa Città ad esercitare ambedue i poteri, qualora essi non fossero vulnerati da quell’esecrabile dissidio che li inficia e perverte.
A questa regale corona che l’iniziato Dante pone sul capo di Virgilio-Tradizione va aggiunto, su una linea parallela che ne compie la figura, quanto dedicato nel primo canto dell’Inferno (vv.82/87) a Virgilio-poeta:
O delli altri poeti onore e lume
Vagliami il lungo studio e ‘l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore
Tu se’ solo colui, da cu’ io tolsi
Lo bello stilo che m’ha fatto onore.
E’ un empito di affetto e di riconoscenza quello che prorompe dall’animo affranto del futuro Pellegrino, nelle cui espressioni va tuttavia intesa la ben calibrata autenticità dell’elogio: onore della poesia e lume dei poeti è esattamente quanto spetta al Mantovano, la cui aureola di vate e ‘mago’ in tanto lo cinse lungo tutto il Medioevo (e non solo) in quanto l’alta cultura dell’epoca ne leggeva le conoscenze occulte legate proprio al ‘mistero imperiale’; e poi “il lungo studio”, immediatamente rincalzato da “‘l grande amore” in una stringa che, coniugando causa ad effetto, dice l’attenta meditata speculazione, volta a penetrare protocolli e codici, dalla cui decrittazione si sprigiona la vampa che regge l’Eneide e genera il naturale contraccambio di chi ne coglie il palpito. Germina da qui “lo mio maestro e ‘l mio autore”, presso cui l’iterazione del possessivo dichiara un possesso – ebbene sì, esclusivo – che il grande allievo è titolato a vantare sul grande maestro. Maestro: se Virgilio lo è – come di fatto lo sarà al grado più elevato, maestro di inferno e purgatorio – dovrà esserlo in conformità al viaggio iniziatico, e dunque dovrà possedere, come guru, la dottrina, lo specifico mandato e il carisma connesso: la dottrina alimenterà l’intera conduzione del viaggio; il mandato, che sottende il carisma, è stato autorevolmente conferito dalla Donna divina – qui la Vergine come lì, nel poema latino, Venere – che, attivando Beatrice, stimolerà in realtà una potenza animico-spirituale largamente posseduta e lungamente affinata (la Vita Nova docet): l’Amore. E non solo maestro si rivelerà Virgilio, ma anche autore, termine che Dante, più di noi vicino al patrimonio lessicale latino, può ricondurre al suo valore primigenio, richiamandone il senso di forza trascendente che investe l’auctor (auctoritas da augeo = incremento, aggiungo) e che lo rende ‘iniziatore’, propulsore e fonte, e perciò personaggio della cui autorevolezza ci si avvale come di garanzia assoluta[13].
Restituito al Virgilio dantesco un profilo più dottrinario, connotato da colori meno melensi, si è in grado finalmente di detrudere le pallide, ectoplasmatiche vesti di ‘ragione umana’ gettate convenzionalmente sulla sua figura, e di riscattare la forza con cui Dante percepì e assimilò il Mantovano: resta ora da liberare dai veli del testo e dalle concrezioni sopraggiunte un altro omaggio di Dante, occultato in quel “bello stilo” intagliato nel verso 87. Che l’espressione, banalmente intesa, non dia senso alcuno, si dimostra con l’assurdità di un’imitazione pedissequa da attribuirsi a un artista geniale della forza di Dante, lo stile essendo uno stigma inevitabilmente personale; meglio cercarne altrove il senso autentico, tenendo peraltro presente il secondo emistichio di quel verso “che m’ha fatto onore”.
Considerati i riverberi iniziatici che insistono sulla figura di Virgilio, bisognerà entrare nell’ordine di idee di collegare quei riverberi allo stile, proprio perché la comunicazione relativa a realtà occulte, senza turbare il lettore inconsapevole (cui il messaggio non è e non deve essere destinato), propone esattamente un problema di stile, ovvero di modalità con cui inviare, senza svelare, il messaggio stesso. Puntuale perciò ci appare la definizione che ne formula il Cerchio[14], peraltro riferita proprio ai Fedeli d’Amore: “Per stile va intesa la manipolazione di modelli espressivi, significato palese e senso occulto dei simboli, in modo tale che essi non [siano] visibili ai non iniziati”. Il medesimo aveva anche chiarito come tale tecnica poetica costituisse l’equivalente letterario di quanto praticato – sul piano artigianale – dalle antiche corporazioni, quali il ‘Collegium Fabrorum’ romano e i ‘Fréres Maçons’ medievali. Coincidente testimonianza si desume da uno studio assai noto del Fulcanelli[15] impegnato a decrittare ‘Art Gotique’ e ‘Argot’ nel linguaggio cabalistico. Su tali più affidabili basi si può restituire al verso un senso più consono secondo cui Dante, attraverso il “lungo studio” dell’Eneide s’è potuto impadronire della versatile capacità virgiliana di ‘travestire’, o velare, i simboli dottrinari, volgendoli in prosopopee, forme allegoriche, esatte anfibologie. Assunto lo stile, par giusto che della conquista si faccia vanto il Fiorentino per deporlo, subito dopo, in forma di elogio, ai piedi del suo antico maestro (“ ...che m’ha fatto onore”): altro che la risibile taccia di ‘ragione umana’[16] gettata sulla raffinata identità del Vate latino, come se la ragione non fosse il più pericoloso strumento dell’io, proprio quello che deve morire perché la metanoia si compia; come se fosse la ragione ciò che può render conto della poesia dell’ “altissimo poeta”[17], del potente ‘mago’, dell’impeccabile iniziato ai “Piccoli Misteri”:
Dile a la luna que venga
che non quiero ver la sangre
de Ignacio sobre la arena[18].
NOTE
[1]Dura a morire l’idea (barbara) che Virgilio simboleggi nella Commedia la funzione della ‘ragione umana’.
[2] Il “ramo d’oro” compare nel VI dell’Eneide, v.137; la verghetta in Inf. IX, v. 89: nel primo caso consente ad Enea l’ingresso agl’inferi, nel secondo apre al Pellegrino le porte del Basso Inferno. In ambedue le occorrenze esprime una superiore legittimazione a compiere il viaggio. In relazione a ciò M. Caetani, seguito poi dal Pascoli e dal Valli, identificherà proprio in Enea, capostipite dell’Impero, il dantesco messo celeste, latore della verghetta. In forza di ciò appare chiaro che il sacrum dell’Impero è lo specifico solvente delle forze maligne arroccate nel Basso Inferno.
[3] [Tu, Romano, ricorda: governare i popoli imponendo la giusta norma alla pace, questi tuoi carismi: clemente coi docili, inesorabile coi sovversivi. – VI, 851-853].
[4] In “Virgilio, Eneide”, fond. Valla, 1978.
[5] Viene spontaneo osservare che in Enea si fondono alcune caratteristiche di Salomone (le più alte conoscenze iniziatiche compatibili col rango guerriero) e di Mosè (guida del suo popolo alla Terra Promessa, che tuttavia non potrà ‘toccare’).
[6] Per la completa intelligenza dell’analogia, complessa e profonda, si veda il testo a pag. 236 / 7 e relativo inserto.
[7] Anche qui utile il sussidio del testo per affrontare in maniera esaustiva i sensi occulti di un’analogia e di un calco ipertestuale.
[8]Esposizione più densa e completa si assume, su tale versante, in G. De Giorgio, La Tradizione Romana (Roma, 1973),
cap. IX.
[9]E’ questa la ragione per cui in Inf. IX Enea, in qualità di fondatore dell’Impero e in veste di Messo celeste, potrà aprire
le porte del Basso Inferno: la sua regalità legittima esprime il suo completo dominio sull’uomo, e perciò anche sui suoi
demoni.
[10] Mon. III – 12.
[11]Cfr. Dante, Mon. II, 12.
[12] Non sono venuto ad abrogare la legge o i profeti – Mt V, 17.
[13] A integrazione della nota 9, si può ora aggiungere che nel poema virgiliano Enea riveste la funzione del Rex, essendo legittimato all’imperium, cui inerisce il crisma di auctor, propulsore fecondo, e poichè Didone viene definita (VI, 456) infelix, cioè spiritualmente sterile, infeconda, se Enea ne accettasse il coniugio, inficerebbe la castitas, perdendo autorevolezza e imperium. Di qui l’intervento della madre Venere, che gli segnalerà l’agguato in cui può cadere il suo io umano.
[14] B. Cerchio, L’Ermetismo di Dante. Roma, 1988, pag. 26.
[15] Il Mistero delle Cattedrali. Roma, 1972.
[16] “Ragione umana”: ma non si avverte un tanfo proveniente dal 1789?
[17] Inf. IV, 80.
[18] G. Lorca: Llanto por Ignacio Sanchez Mejias – Madrd, 1936