Incoronazione di Francesco Giuseppe I ed Elisabetta come Re e Regina d’Ungheria, avvenuta l’8 giugno 1867 nella chiesa di Mattia (Nostra Signora Assunta della Collina del Castello) – Buda, Ungheria.
Il primo giorno dell’anno è solitamente sonnacchioso, dopo i festeggiamenti del 31 dicembre. Ci accompagna nella tarda mattinata del 1° gennaio, al risveglio tardivo, l’ormai tradizionale concerto di capodanno da Vienna che si chiude con quella “marcia di Radetzky” composta in onore del generale austriaco, dopo la sua vittoria a Custoza nel 1848, da Johann Baptist Strauss. Josef Radetzky fu governatore del Lombardo-Veneto diventato parte dell’Impero austriaco che amministrò con mano ferma contro i liberali, in particolare dopo il fallimento dei moti del 1848, ma anche, a dispetto dei ceti abbienti, con una politica filo-popolare invisa alla borghesia milanese. Quando, dopo la rivoluzione, rientrò trionfante a Milano nel 1849 i popolani lo acclamarono dicendogli “son stati li sciuri” – sono stati i signori – intendendo così proclamare la loro non responsabilità nel moto rivoluzionario guidato dalla borghesia. Accade così che ogni capodanno gli italiani possono godere della musica composta da un grande musicista in omaggio ad un grande “reazionario” che è l’emblema stesso dell’anti-risorgimento. Le note della “marcia” sono per alcuni l’occasione per un ripasso delle vicende storiche che videro nel XIX secolo l’Impero d’Austria fronteggiare il cosiddetto Risorgimento che, al di là della retorica trionfalistica tutta tricolori e fanfare, fu in realtà la conquista manu militari e senza base popolare dei legittimi Stati italiani da parte dei Savoia. L’Italia che nacque all’esito di quella conquista sarà sempre dipendente da forze straniere essendo ab origine nata sotto tutela straniera, franco-inglese. La nostra storia nazionale, purtroppo, per questo peccato di origine, è stata la storia della nostra radicata esterofilia. Come Stato nazionale abbiamo sin dagli inizi coltivato un complesso di inferiorità che ci fa sentire sempre dipendenti da qualcuno “meglio di noi”, ieri la Francia di Napoleone III, poi la Germania nazista, quindi gli Stati Uniti d’America.
Allo scrivente le atmosfere asburgiche del concerto di capodanno lo riportano al lontano 1994 quando visitò Vienna e portò un fiore sulla tomba di colui che considera il “suo” imperatore, Francesco Giuseppe, che riposa nella Kapucinen Kirche. Ma esse restituiscono in generale, ad ogni inizio d’anno, la memoria di un impero che, nonostante le sue problematicità, viveva nell’ideale dell’unità pluralistica, multietnica, multilinguistica, tendenzialmente confederale, cementata spiritualmente – ecco la fondamentale differenza con l’utopia odierna dell’unità tecnocratico-economica autocostruita – dalla bimillenaria identità cristiana. In quell’impero nessuno era propriamente straniero in terra altrui ma soltanto forestiero. L’ultima Vienna asburgica è stata una grande capitale europea nella quale ferveva la migliore cultura dell’epoca e si respirava un clima di sostanziale tolleranza anche religiosa, benché l’Impero fosse ufficialmente confessionale ed il Cattolicesimo fosse la religione di Stato. Nella fase della cosiddetta Duplice Monarchia, ferma rimanendo l’intangibilità del Sovrano, nei dominii asburgici la persecuzione politica era stata superata. Chiunque era libero di professare le sue idee mentre nei caffè accese discussioni davano forma all’opinione pubblica ed ogni tendenza artistica e filosofica trovava spazio di espressione.
Un grande scrittore ebreo, Joseph Roth, nei suoi romanzi ci ha raccontato della tolleranza asburgica per la quale anche l’ultimo ebreo di Galizia godeva della protezione dei tribunali dell’Imperatore. La narrazione letteraria di Roth ha trovato conferma storiografica in opere importanti come quella di Francois Fejtö, “Requiem per un impero defunto”, nella quale lo storico ungherese indaga la realtà multinazionale dell’Impero e la strategia della massoneria anglofrancese, che con Georges Clemenceau e David Loyd George era al potere a Parigi ed a Londra, per abbatterlo. I massoni austriaci, al contrario, restarono sostanzialmente fedeli al governo imperiale che pur era cattolico. Vienna, forte della sua secolare storia asburgica, alla vigilia della prima guerra mondiale era per davvero la capitale d’Europa. Forse fu per questo, per la veneranda memoria che essa custodiva, che Gabriele D’Annunzio, il quale da nemico ne era comunque affascinato, sorvolandola, in un beau geste di sfida, non la bombardò ma si limitò a gettare volantini.
L’Impero aveva i suoi problemi ma essi non erano tali da portarlo alla fine se non fosse intervenuta la convergenza degli interessi anglofrancesi con quelli dei nemici interni. Il processo di confederalizzazione, che lo stava trasformando in una unione libera di popoli eguali, aveva trovato resistenza da parte degli ungheresi dopo che la riforma istituzionale della duplicazione della Corona, che cambiò nel 1867 l’impero d’Austria in impero d’Austria-Ungheria, aveva parificato l’Ungheria all’Austria. Gli ungheresi, ottenuta la parificazione, non volevano però estenderla alle altre componenti, ad iniziare da quella croata sulla quale Budapest esercitava una atavica egemonia. Questo rallentamento del processo di confederalizzazione, che tuttavia alla lunga non poteva che essere momentaneo, alimentò le tensioni sulle quali soffiavano i nazionalismi e gli irredentismi “giacobini” i quali, con la Grande Guerra, avrebbero contribuito alla dissoluzione dell’Impero. Nonostante la resistenza ungherese, nell’ultima sua fase l’impero aveva gradualmente dato avvio al trialismo per parificare anche la componente slava. Cosa che avrebbe inevitabilmente aperto la strada alla definitiva parificazione di tutte le altre componenti, compresa l’italiana rappresentata alla Dieta viennese dal giovane deputato cattolico, trentino di nascita, Alcide De Gasperi. L’erede al trono Francesco Ferdinando era a favore del trialismo – meno simpatie aveva invece verso gli italiani considerati infidi e traditori – e per questo qualcuno sospetta che ad armare la mano assassina di Gavrilo Princip, a Sarajevo, nel 1914, non fu solo la Serbia ma anche i circoli governativi ungheresi contrari alla sua politica.
La storiografia ha ormai restituito la realtà storica dell’ultima compagine asburgica quale modello mitteleuropeo, ed in prospettiva europeo tout court, di unione politica nel rispetto del pluralismo nazionale e culturale nonché delle “libertates” concrete – una concezione che affondava le sue radici spirituali nella Tradizione romano-cristiana, senza escludere altri minoritari apporti, da quello ebraico a quello mussulmano – ma non bisogna dimenticare che si trattò di un processo, sviluppatosi tra alti e bassi, tra avanzamenti e retromarce, il quale non era ancora giunto al suo esito finale quando sopravvenne la Grande Guerra.
Nella storia della Vienna asburgica ottocentesca una figura femminile ricoprì un ruolo in qualche modo determinante. Sissi, ossia Elisabeth di Wittelsbach duchessa di Baviera ed imperatrice d’Austria-Ungheria, nonché moglie di Francesco Giuseppe, si presta da sempre, dai tempi del fumettone con Romy Schneider, per operazioni generalmente denigratorie verso ciò che rappresentò suo marito nella fase iniziale del regno. L’ultima delle operazioni di tal genere è la fiction televisiva sulla sua vita che Mediaset, su Canale 5, sta trasmettendo da martedì scorso. A causa del suo ribellismo, frutto anche dell’educazione liberale ricevuta dal duca di Baviera suo padre, verso la rigidità del protocollo di corte, la verve “anticonformista” di Sissi è stata fatta passare per opposizione dell’imperatrice al “dispotismo asburgico”, alla “chiusura illiberale” di Vienna. In realtà Elisabeth contrasse con Francesco Giuseppe un matrimonio d’amore, cosa molto rara tra gli antichi sovrani che si sposavano soprattutto per questioni dinastiche e ragion di Stato, e la sua influenza sull’imperatore fu in qualche modo risolutiva per aiutarlo nella svolta della sua politica. Sappiamo che l’amore durerà poco da parte di Sissi la quale abbandonò la corte, non sopportandone il rigore, per girovagare per l’Europa da ricca signora ma spesso in incognito. Fino a quando non fu assassinata a Ginevra nel 1898 dall’anarchico italiano Luigi Lucheni. Un paradosso laddove si pensi alle idee liberali – in fondo anche moderatamente un po’ anarchiche – dell’imperatrice. Francesco Giuseppe, invece, resterà sempre innamorato, fino alla fine dei suoi giorni, di questa donna così differente per indole e formazione da lui.
La consueta presentazione di Francesco Giuseppe come di un sovrano assolutista, che tale fu soltanto agli inizi, è in gran parte un falso dal quale non emerge la complessità di un impero multietnico alla vigilia, nel momento nel quale egli assurse al trono, della svolta verso il processo, rimasto incompiuto, di confederalizzazione. Ma in realtà il “liberalismo” di Sissi non era una opposizione alla presunta “tirannia asburgica” quanto una sorta di adeguamento ai nuovi tempi del principio imperiale. Francesco Giuseppe salì al trono nel fatidico 1848, l’anno dell’esplodere contemporaneo – sicché il sospetto che fossero concertate dalle massonerie di tutte le capitali europee è più che un sospetto – dei moti rivoluzionari, guidati dalle borghesie nazionali, in tutti gli Stati della Santa Alleanza. Quell’anno ebbe fine l’Europa “reazionaria” come disegnata dal grande Klemens von Metternich per garantire, con la restaurazione dell’assolutismo (che tale non fu davvero perché furono conservati diverse novità introdotte dalla Rivoluzione ad iniziare dai codici legislativi), una pace stabile sul continente dopo le guerre napoleoniche. Eppure non tutti i liberali e rivoluzionari guardavano con totale simpatia agli eventi in corso. Carlo Cattaneo, ad esempio, di idee federaliste, considerò l’ingerenza savoiarda nelle cinque giornate di Milano un pericolo per la realizzazione di una federazione del Nord Italia che egli, pur repubblicano, vedeva almeno provvisoriamente interna, con diritti di autogoverno riconosciuti, alla compagine imperiale essendo la Lombardia, i cui legami economici con Vienna erano forti, una delle regioni più ricche e sviluppate dell’Impero.
Il giovane imperatore si ritrovò sul trono nel pieno di questa tempesta. Il suo primo dovere era quello di ristabilire la pace interna. Egli, che infatti nel 1851 avrebbe revocato la costituzione concessa nel 1848 dal suo predecessore sotto la pressione della piazza, era di formazione assolutista e, sconfitta la rivoluzione, decise di comportarsi da sovrano assoluto e di agire secondo gli strumenti istituzionali e le leggi vigenti nel regime assolutistico. Represse, quindi, la rivolta ungherese giustiziandone i responsabili ad Arad ma quando anche per l’influsso di Sissi si rese conto della necessità di avviare riforme non ebbe remore ad aprire una fase di cauto confronto con la nobiltà ungherese che rivendicava il ripristino degli antichi diritti della Corona di Santo Stefano. L’esito di questa svolta politica fu il “compromesso” austro-ungarico del 1867 che sancì la nascita di un germe di confederazione – in comune restavano, oltre che all’Imperatore, i ministeri della difesa, degli esteri e dell’economia mentre tutto il resto fu suddiviso tra i governi autonomi della Cisleitania e della Transleitaina rispettivamente facenti capo a Vienna ed a Budapest. S i trattava di un ordinamento liberale e costituzionale aperto ad ulteriori sviluppi in senso confederale, mentre la modernizzazione economica procedeva sospinta dalle riforme politiche.
Nei miei personali ricordi scolastici di tutto questo non c’è quasi nulla e solo la mia passione per lo studio della storia mi ha permesso di conoscere la realtà dei fatti. A scuola Francesco Giuseppe è presentato, ancor oggi da quanto ne so, come un despota. Punto e basta. Né il cinema, che ha riservato ogni attenzione solo sulla figura di Sissi, molto romanzandola, ha mai approfondito la vicenda storica di Francesco Giuseppe. Neanche l’ultima fiction su Sissi che Mediaset, su canale 5, sta trasmettendo in questo periodo sfugge alla regola. In essa Francesco Giuseppe è rappresentato, in opposizione al romanticismo di Sissi, come un frequentatore di bordelli. Un falso mentre è vero che egli fece pratica, a corte, con le “contesse igieniche”, nobildonne demandate a questo scopo. Nella fiction in questione una scena vede il giovane Francesco Giuseppe addirittura aggredire fisicamente l’ambasciatore dello Zar, oltretutto cugino dell’imperatore di tutte le Russie, latore di un messaggio da Pietroburgo per ricordargli i doveri dell’alleanza tra i due imperi nella prospettiva della guerra contro quello ottomano. Una cosa del tutto inconcepibile in base al codice diplomatico e che da sola avrebbe provocato una guerra tra Austria e Russia. Questo modo di rappresentare un grande protagonista della storia europea è offensivo della veneranda memoria non solo di Francesco Giuseppe ma dell’identità profonda dell’Europa, quella vera della quale l’Unione Europea è la contraffazione, l’antitesi nichilista. Nulla, nell’insegnamento scolastico come nella cinematografia, della svolta confederale, nulla dell’umanità di Francesco Giuseppe che odiava la guerra, avendone fatto personale esperienza a Solferino, e tutto fece per mantenere i suoi popoli in pace – fosse stato per lui l’Austria Ungheria non sarebbe entrata in guerra contro la Serbia nel 1914 ma da sovrano costituzionale rispettò la decisione presa dal governo imperiale – mentre ovunque in Europa si cospirava contro l’Impero.
Dopo Francesco Giuseppe, Carlo d’Asburgo, l’ultimo imperatore, grande quanto lui ma più grande di lui in quanto a santità tanto è vero che Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato, provò, ancora nel 1921 come Re d’Ungheria a salvare quel che restava dell’Impero dopo aver tentato, con l’aiuto della fedele moglie Zita di Borbone Parma, di giungere ad una pace separata per porre fine, sostenuto da Papa Benedetto XV, al grande massacro della prima guerra mondiale. Il tentativo di Carlo fu vanificato dal tradimento dell’ammiraglio Horty che prese il potere in Ungheria inaugurando una dittatura militare socialmente appoggiata dai latifondisti magiari.
Con quel tentativo venne meno ogni vestigia politica dell’Europa romano-cristiana. Dopo di esso abbiamo avuto i totalitarismi e, quindi, la divisione del nostro continente tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. Infine, dopo il 1989, lo sprofondamento nella globalizzazione, ossia nel nulla impolitico e spirituale, per mezzo dell’Unione mercantile consolidata nella forma monetaria dal Trattato di Maastricht.
Luigi Copertino