Preambolo, a cura della Redazione
Nell’anno delle più svariate commemorazioni organizzate in occasione del settecentenario della morte di Dante, la voce del noto giornalista, scrittore e filosofo Marcello Veneziani si pone bel al di là della retorica ufficiale, cogliendo dell’evento il senso più profondo: la paternità spirituale di Dante, che mantiene la propria pregnanza in tutti i campi del più alto agire e pensare umano (religione, politica, arte), rimane non solo esemplare ed irripetibile, eppur irrimediabilmente relegata a non più che una mera memoria, ma altresì suscettibile di vivificante ispirazione per attuali sue applicazioni nei medesimi suddetti campi.
Da parte nostra, ospitando qui ben volentieri il suo articolo “Dante, il poeta della luce”, uno tra i numerosi contributi che Marcello Veneziani ha offerto sul tema (a partire dal suo recente saggio “Dante, nostro padre. Il pensatore visionario che fondò l’Italia”, Vallecchi, Firenze 2020), rendiamo omaggio all’autore nonché al tema che tanto caro rimane a Regina Equitum: il ritorno a Dante, nella sua completezza dottrinale; il che costituisce uno di quei doveri a cui non ci si dovrebbe in assoluto sottrarre, in vista di un escatologico risveglio dalle tenebrose melme del presente tempo.
E venne infine il giorno fatidico di Dante. Dopo un anno di rievocazioni d’ogni tipo, arriva quel 13 settembre, o meglio quella notte di sette secoli fa, in cui Dante andò davvero nell’Aldilà. Non possiamo dire che il suo anniversario sia passato inosservato. Nel sesto centenario, il 1921, Gabriele d’Annunzio si rifiutò di parlare a una celebrazione dantesca dicendo: “Oggi in Italia non può parlar di Dante che un ministro, un professore, o un imbecille. Ed io, grazie a Dio, non appartengo a nessuna di queste tre importanti categorie”. Non appartenendo alle prime due, non vorrei appartenere alla terza, avendo scritto un libro su Dante nostro padre, che sto portando nei luoghi danteschi…Dante, il più italiano dei poeti, il più poeta degli italiani, eppure così universale. Ora che l’anno dantesco volge alla conclusione proviamo a fare un bilancio in poche righe dell’immenso lascito dantesco e poi del suo punto focale.
Qual è la lezione umana, civile, morale che Dante lascia in particolare ai potenti, ai dotti e ai sacerdoti? Dante insegna ai potenti e ai regnanti, con l’esempio oltre che con le parole, la fierezza, la coerenza, l’onore, categorie calpestate nel nostro tempo ma a essere onesti anche nel suo, considerando la veemenza con cui li attaccò, pagando un prezzo altissimo. Dante insegna l’importanza di essere all’altezza di una tradizione e dell’auctoritas che si incarna; non c’è per lui potere senza carisma, né dominazione benefica senza legittimazione sacra. Imperativi incomprensibili nel nostro tempo.
Ai dotti, o chierici, che nel nostro tempo chiamiamo intellettuali, Dante – che era uno dei loro – insegna che il coraggio delle proprie idee vale almeno quanto le stesse idee. Quel che si è disposti a rischiare per le proprie idee mostra la grandezza di chi le professa come la sostanza delle stesse idee. Fu dantesco Ezra Pound quando coniò quel motto che è il blasone della migliore militanza ideale: “chi non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui”. A volte, aggiungo, entrambe le cose. Dante insegna che l’impegno civile grandeggia se è posto al servizio di una visione del mondo, di un orizzonte trascendente e spirituale oltre l’umano, lo storico e il personale.
Infine agli uomini della Chiesa Dante ricorda che religioso non coincide con clericale, la fede non è sottomissione a un potere, sia esso sacerdotale, cardinalizio o papale; e la legittimazione spirituale della potestas politica, nella forma più alta dell’Impero, non deriva dalla Chiesa ma direttamente da Dio. Prima di Machiavelli Dante rivendica l’autonomia spirituale della politica; non da Dio o dalla morale, ma dal potere clericale.
La lezione di Dante ai potenti, ai dotti e ai sacerdoti si estende per gradi a tutta la società e a tutti i tempi. Una lezione di dignità tramite la bellezza dei versi, la profezia delle visioni, l’ordine simbolico nelle sue figurazioni.
Ma qual è, dicevo, il punto focale di Dante e della sua opera? Dante è il poeta della Luce. Tutto il suo cammino nella scrittura e nell’aldilà è un itinerario della mente verso la luce. Da luce deriva, in ultima istanza, lo stesso etimo di Dio. Beatrice è luce, il Paradiso è luce, gli angeli, i santi, la Madonna e infine lo Spirito divino sono luce; la visione profetica è luce; e il Purgatorio è ricerca di luce, come l’Inferno è luce nera, di fuoco e fiamma, casa di Lucifero. Il cielo è la luce e la terra è l’opaco, gli insegnò San Bonaventura e la luce è “inter omnes…sensibiles affectus spritualior” gli ricordò San Tommaso. La luce è perfezione e le tenebre sono l’errore. Dante capovolge la nostra cupa visione del medioevo come oscurantista; in lui rifulge “la luce del medioevo” per citare un’opera di Régine Pernoud.
La sua visione è pittorica e il gioco di luce e ombra ne è la chiave; “pintura in tenebrosa parte, non si può mostrare né dar diletto di color né d’arte” scrive nelle Rime. Dante dipinge i regni dell’oltretomba, dal fuoco dell’Inferno, al lume del Purgatorio fino alla luce divina del Paradiso. Ottimo commento al Paradiso “approdo all’ultima luce” ha pubblicato di recente Franco Ricordi da Mimesis (è il terzo volume della sua Filosofia della Commedia di Dante): il Paradiso è il luogo dantesco per eccellenza e non l’Inferno come avevano insegnato da De Sanctis in poi.
L’Inferno è “l’aere sanza stelle”, “quell’aere grosso e scuro”, “d’ogni luce muto”, “’l più basso loco e ‘l più oscuro”: è il regno delle ombre, e l’ombra – sentenzierà poi Leonardo – “è di maggior potenzia che il lume”. “Così sen vanno giù per l’onda bruna”, la riva dell’Acheronte avvolta nella caligine, l’abisso. Anche le anime dannate, sono definite “l’anime più nere” perché la loro dannazione è la distanza abissale dalla luce. E i diavoli sono “neri cherubini”, negatori della luce. “lo fondo è cupo”, “noi fummo giù nel pozzo scuro”. L’uscita dall’Inferno è la riconquista della luce: “lo duca e io per quel cammino ascoso/ intrammo a ritornar nel chiaro mondo”. Il Purgatorio è contrassegnato dalla luce terrestre e solare, “dolce color d’oriental zaffiro” “tosto ch’io uscì fuor de l’aura morta che m’aveva contristati gli occhi e ‘l petto”. Catone gli appare in Purgatorio tra “li raggi de le quattro luci sante” che “fregiavan si la sua faccia di lume” al punto da abbagliare Dante. Qui il sole sorge e fiammeggia.
Poi il Paradiso, il trionfo della luce, “l’aere luminoso”, la visione di Beatrice “luceano li occhi suoi più che la stella”; lucerne e lumi divini sono le anime beate, “con tanto lucore… m’apparvero splendor dentro a due raggi”. Gerarchie di luce denotano il Paradiso, la vita spirituale sorge “con la luce”; il fiore che sboccia in Paradiso è luce che piove dall’alto. Anche in Paradiso ci sono fiamme ma sono ali d’oro, splendore e fulgore in paesaggi di luce. “O eterna luce che sola in te sidi, sola t’intendi”. Dante è sete di Luce, ascesa alla Luce. Dal nostro tempo dista anni luce.
Marcello Veneziani, La Verità (12 settembre 2021)
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IN MORTE DEL FRATELLO … DURANTE (di Alessandro Scali)
E venne un Uomo chiamato Marcello …..(Veneziani) a parlarci di Durante (detto Dante) Alighieri. Vero è che sono tantissimi a parlarne, forse troppi, e forse troppi a ritagliarsi almeno uno strapuntino sul carrozzone mediatico, approfittando della ricorrenza dantesca, pur lontanissimi dal messaggio e dallo spirito del Fiorentino; provate invece a leggere, sul quotidiano “La Verità” del 13 Settembre, il contributo dell’Uomo: ecco, lì troverete qualcosa di diverso, e non solo nella straordinaria sintesi in cui egli stringe le colonne portanti della “Commedia”; e non solo e non tanto per il linguaggio piano e ficcante che ti porge i nutrienti, cibi solidi e golosi, ma perché in quel vassoio non poteva non riversare l’amore, il rispetto, la sua venerazione per quel Maestro che gli ha preso l’anima, modellandola sì nella sensibilità, sì nella congeniale spiritualità, ma soprattutto, ciò che è raro e inusitato, nel costume, nei principi e nello stile di vita, sobrio e forte, determinato e dolce. Ed è questo che, se vuoi, puoi sentire anche in quel brevissimo scorcio, pubblicato in occasione dell’anniversario dantesco, perché sempre quella è l’anima, quella stessa che hai avvertito pacata, lucida, struggente nella “Nostalgia degli Dei”, vigorosa ed evocativa in “Dante, nostro padre”. E’ da lui che puoi ascoltare e intendere Dante.
Certo, dello Spirito che governa la poderosa architettura della Commedia, nessuno può dar intero conto se non l’Altissimo, Colui che sempre presiede ai suoi più ardui riti di passaggio:
O buon Apollo, all’ultimo lavoro
fammi del tuo valor siffatto vaso
come dimandi a dar l’amato alloro…
O divina virtù se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnato nel mio capo io manifesti…[1]
il Medesimo che certo corrispose ai dardi di fuoco della sua incessante invocazione.
Della ricchezza e complessità dell’opera, nessuno, per quanto indotto, può dubitare; meno nota e meno frequentata è la consapevolezza che l’intera scrittura dantesca ha un unico centro propulsore che, preparato attraverso la Vita Nova, rappresentato nella rimeria, sottinteso nel ‘De Vulgari’, illustrato nella ‘Monàrchia’, viene celebrato e santificato nella ‘Commedia’ come il tema di tutti i temi. Ed è l’Autore stesso a venirci incontro, quando dichiara, nella dedica della terza cantica a Cangrande della Scala, la finalità del Paradiso. -e dunque dell’intera Commedia- :”Si può dire brevemente che il fine del tutto e della parte è togliere dallo stato di miseria i viventi in questa vita e condurli allo stato di felicità”[2]
Già da qui si rileva tutta intera la duplice problematica, spirituale ed esistenziale, ma non incentrata su uomo, o su un ceppo, o su un popolo, ma estesa all’intera umanità, in ciò coinvolgendo il livello cosmico ed ontologico, perché se Dante voleva dire che intendeva prendere su di sé una missione -per quanto all’uomo possibile- pari a quella del Cristo, o almeno di affiancamento a Lui, certo non poteva esprimerlo più chiaramente.
Un tale compito richiama di necessità la corretta gestione dei due massimi poteri sulla terra, autorità spirituale e potere temporale, nella cui eco si avverte: “venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà COME IN CIELO, E COSì IN TERRA”. Perciò Dante indaga sull’origine di quei poteri, e in un passo determinante della ‘Monarchia‘ ne coglie simultaneamente l’unità principiale in Dio, depositario di ogni potere, e la loro distinzione, riverbero della duplice natura dell’uomo, spirituale e mondana.[3] Va da sé che le due istituzioni terrene gestiscono indubitabilmente un vicariato, su cui poi il Medio Evo, già dagli anni intorno al Mille, in concomitanza con le lotte tra Papato e Impero, farà rissa, dibattendo se il vicario di Cristo non disponesse del duplice mandato, spirituale e temporale, così che il potere politico venisse a dipendere anch’esso da Pietro. Il brano su citato, per non dire l’intero studio che lo contiene, fa luce sul tema, riportando a Cristo Sacerdote il vicariato del papa, e a Cristo Re la delega all’autorità politica, distinguendo esattamente le differenti giurisdizioni, così come era stato elaborato e sancito fin dalla formula di Gelasio I, ben anteriore a quelle lotte,[4] con cui si chiusero autorevolmente le porte a qualunque suggestione teocratica,
Sulla falsariga di quella definizione, peraltro arricchita nel tempo da diversi interventi chiarificatori, e in coerenza con la missione assunta, il Poeta distingue, nel quadro di tutti i possibili errori umani (i ‘peccati’) quelli di natura sociale, che devono essere perseguiti dall’ ‘impero’ (le leggi, a protezione di una civile convivenza), da quelli di natura egotica (lussuria, gola, avarizia, accidia), che devono essere contrastati dall’autorità spirituale. La risultante è che i due massimi poteri, in quanto responsabili sulla terra di una potestà non autonoma, ma loro demandata, hanno il dovere di collimare nei fini (dunque, distinti, non divisi) attraverso forme e strumenti diversi, onde guidare l’umanità corrotta al raggiungimento dell’eterna felicità, ciascuno con pertinenze e limiti precisi, nella consapevolezza che in un mondo così ordinato e guidato, l’umanità potrà raggiungere il vero fine dell’uomo, che corrisponde al fine stesso della creazione.
Un disegno di tanto respiro, che orgogliosamente Dante così rivendica:
“al quale ha posto mano e cielo e terra
sì che m’ha fatto per più anni macro…” [5]
immerso in una temperie culturale-spirituale infernale come l’attuale, non poteva che portare a celebrazioni -ufficiali e non- dello stampo di quelle cui abbiamo assistito (sia pure con qualche nobile eccezione): letture non-stop di 12 mila e più versi, cerimonie-memento, improvvisate cervellotiche recitazioni, approfondimenti (!!) da fumetto, nonché suggestivi brani musicali: tutti orpelli funerari (e la Messa in suffragio?), quando non riti apotropaici di tanti scatoloni vuoti, perché evidentemente come defunto viene sentito, ricordato, giubilato. E il messaggio, il monito, i fuochi infernali e i fulgori celesti, gli esempi luminosi, -non suppellettile marmorea, ma specchi di tragedie e di vita-; e poi, analisi implacabili, invettive, stimoli, condanne… dove sono e per chi? Assale la mente quel verso leopardiano: “O patria mia, vedo le mura e gli archi – e le colonne…. – ma la gloria non vedo”. Infatti: chi ha rivendicato a Cristo Re il patronato di politica e giustizia? Avete forse sentito, nei ludi memoriali, ammonire o apostrofare i nostri corruttori al potere? O strigliare una Chiesa infedele e pervertita? O sferzare un popolo abbandonato al vizio e all’abiezione? E allora elogio, ricordo, celebrazione di che, se non per rinnovare per la settecentesima volta le esequie, ma indossando il distintivo di uomo baciato dalla cultura?
Certamente non sono ancora tutti morti quelli …quei pochi… che ne avvertono la sua presenza docente nell’anima, nella vita, negli orientamenti spirituali, in un costante quotidiano confronto, sedotti dall’universalità del suo spirito, che ricostituisce, cura, rinfranca il nostro, trovandoci sempre simultaneamente spettatori e protagonisti.
ll resto sono stoppa e stucchi.
[1]Pd., I, vv. 13-15; 22-24.
[2]“Dicendum est breviter quod finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis.
[3]La citazione nelle due lingue e la relativa elaborazione, qui fuori luogo, sono in:Scali A., Dante, pietra d’inciampo, Il Cinabro – 2008.
[4]“Cristo, memore dell’umana fragilità,… in tal modo divise i doveri di ambedue i poteri.che, e i cristiani imperatori avessero bisogno, in funzione della vita eterna, dei pontefici, e i pontefici fruissero degli ordinamenti imperiali per ciò che attiene alle esigenze mondane…” L’intera pericope nelle due lingue, e la fonte, è pubblicata presso: AA.VV. : Cristo è Re, pagg. 34/5.
[5]Pd. xxv, vv. 2 – 3