La battaglia di Lepanto, dipinto di Lucas de Valdés (1661-1725), Chiesa di S. Maria Maddalena, Siviglia.
In quanto 450° anniversario della Battaglia di Lepanto, ennesima Crociata della Cristianità contro l’Islam, il presente anno 2021 costituisce per il Sodalitium la doverosa occasione per rievocarne la memoria ed i significati “cavallereschi”.
Un breve cenno storico riguardante il mondo mediterraneo del XVI secolo potrebbe essere intanto utile per meglio inquadrare gli accadimenti e le cause che portarono allo scontro in questione.
Dopo la conquista di Costantinopoli, avvenuta nel 1453, i Turchi-Ottomani continuarono il loro moto espansivo, estendendo i propri domini sul Mar Mediterraneo sino a conquistare anche Siria ed Egitto. Essi guadagnarono così il controllo del Mar Rosso, il quale rappresentava la principale via commerciale di quelle spezie provenienti dall’Oriente, le quali, sin dal Medioevo, costituivano una merce pregiata nonché indispensabile per la conservazione dei cibi.
In Africa, invece, una flotta al comando del pirata mussulmano Barbarossa – l’ammiraglio Khair al Din – conquistò i porti di Tunisi ed Algeri, ponendoli sotto il dominio turco-ottomano. Ciò fece di questi ancoraggi due covi di pirati che infestavano il Mediterraneo e saccheggiavano le coste italiane e spagnole. Nel corso di questi saccheggi, i pirati barbareschi erano soliti catturare prigionieri cristiani che venivano poi rivenduti come schiavi, nel caso in cui non avessero avuto la possibilità di riscattarsi a caro prezzo.
Il fenomeno della pirateria non rappresentava affatto una novità per il bacino del Mediterraneo, in quanto risalente già all’Antichità. Ciò che invece si rivelava preoccupante per l’Europa cristiana era piuttosto la forza navale della potenza ottomana, peraltro alleata degli stessi pirati barbareschi. L’avanzata ottomana sembrava irresistibile sia per mare che per terra – lungo la direttrice che porta dalla Turchia verso i Balcani, fin quasi alle porta di Vienna – ed andava tratteggiandosi oramai come una vera e proprio minaccia per l’Occidente, avendo conquistato oltre a Rodi, per mare, anche Belgrado e quattro quinti dell’Ungheria, per terra.
Tale situazione diede la stura ad una vera e propria lotta tra le potenze cristiane – rappresentate in primis dai cattolicissimi Asburgo – e gli Ottomani.
Nel 1535, Carlo V riuscì a conquistare Tunisi con una sortita contro i pirati barbareschi; anche se, poco dopo, la flotta cristiana venne sgominata da quella del solito Barbarossa.
Nel 1565, venne invece assediata l’isola di Malta, che lo stesso Imperatore Carlo V aveva concesso ai Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, futuri Cavalieri appunto di Malta. Di lì a poco, nel 1570, sempre i Turchi, al comando di Selim II successore di Solimano il Magnifico, conquistarono anche Cipro, avamposto orientale veneziano della cristianità. Nel frattempo, la stessa Tunisi veniva riguadagnata agli Ottomani, da un vassallo del sultano.
In quegli stessi anni, nel 1566, Michele Ghislieri, un frate domenicano di umili origini e già Inquisitore Generale, salì al soglio pontificio con il nome Pio V, grazie all’appoggio di San Carlo Borromeo. Più di ogni altra figura, egli incarnò su di sé il nuovo spirito religioso controriformista, tanto che il popolo di Roma poté finalmente essere testimone di un «pontefice asceta che camminava scalzo per le strade, non indugiava alla siesta, si alzava all’alba e riduceva al minimo indispensabile le spese della curia»[1].
Fu proprio Pio V il papa che tornò ad occuparsi della politica orientale, dal momento che i suoi diretti predecessori si erano per lo più preoccupati della salvaguardia dei domini temporali dello Stato della Chiesa, schiacciati come erano dalla ingombrante e preoccupante presenza spagnola nella penisola italiana. Grazie all’accordo Roma-Madrid del 1558, la Chiesa poté così tornare finalmente a rivolgere uno sguardo a quello scismatico oriente cristiano, minacciato per mare e per terra dall’avanzata ottomana, nei confronti del quale non si era mai sopita del tutto la speranza di riportarlo all’obbedienza di Roma. Proprio per iniziativa di Pio V, dunque, si diedero i natali ad una Lega Santa nella quale entrarono Venezia, la Spagna, la Repubblica di Genova, il Ducato di Savoia, quello di Urbino e il Granducato di Toscana, oltre ai Cavalieri dell’Ordine di Malta.
«Al di sopra di interessi materiali, di ambizioni, di possessi e di ricchezze, vi era un Crociato che chiamava a raccolta la Cristianità: Pio V. Non era Cipro dei Veneziani in pericolo, ma la Croce di Cristo nell’Europa era minacciata. La parola commossa del Papa riuscì a conciliare Veneziani e Spagnoli»[2].
La flotta cristiana, composta da poco più di duecento galee, almeno la metà delle quali veneziane, al comando di Giovanni d’Austria – fratellastro di Filippo II di Spagna e novello Carlo Martello – affrontò quella turca nei pressi dell’allora Lepanto (l’attuale Nafpaktos), nel Golfo di Corinto, inalberando il vessillo crociato, precedentemente benedetto proprio da Pio V.
In quella che è stata indubbiamente la più grande battaglia del Mediterraneo nel XVI secolo nonché l’ultimo scontro navale affidato ad imbarcazioni a remi e combattuto con la tecnica dell’abbordaggio, gli Ottomani opposero alla flotta cristiana almeno duecentocinquanta galee. Tuttavia, l’abilità dei comandanti cattolici, la maggiore potenza di fuoco della loro flotta, l’eroismo dei loro combattenti negli scontri corpo a corpo sui ponti delle navi, fecero la differenza, dando la vittoria finale proprio ai soldati di Cristo.
«Mentre si moriva per Cristo, per la Chiesa e per la Patria, si recitava il Santo Rosario: e i prigionieri remavano ritmando il tempo con le decine dei misteri. L’annuncio della vittoria giungerà a Roma 23 giorni dopo, portato da messaggeri del Principe Colonna. Il trionfo fu attribuito all’intercessione della Vergine Maria, tanto che Pio V, nel 1572, istituì la festa di Santa Maria della Vittoria, trasformata da Gregorio XIII in Madonna del Rosario […] Da allora in poi si utilizzò ufficialmente il titolo di Auxilium Christianorum, titolo che non sembra doversi attribuire direttamente al Pontefice, ma ai reduci vittoriosi, che ritornando dalla guerra passarono per Loreto a ringraziare la Madonna […] I forzati che erano stati messi ai banchi dei remi furono liberati: sbarcarono a Porto Recanati e salirono in processione alla Santa Casa, dove offrirono le loro catene alla Madonna; con esse furono costruite le cancellate poi poste agli altari delle cappelle. Lo stendardo della flotta fu donato alla chiesa di Maria Vergine a Gaeta, dove è tuttora conservato e che attende di essere ancora issato nei cuori di coloro che si professano cristiani e vogliono difendere le proprie radici»[3].
Inutile sottolineare che l’eccezionale importanza, anche simbolica, della vittoria cristiana di Lepanto, contro quel nemico che aveva conquistato Costantinopoli cancellando lo stesso Impero Bizantino, apparve come l’approvazione divina ai valori della cristianità e agli stessi ideali della Controriforma tridentina. A tal proposito, lo stesso Fernand Braudel, autore di quella monumentale opera che risponde al titolo di Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II[4], afferma che:
«[Se] anziché badare soltanto a ciò che seguì a Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità, la fine d’una altrettanto reale supremazia della flotta turca […] Prima di far dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme»[5].
Una delle più epiche ed emozionanti commemorazioni della battaglia di Lepanto è quella che fece Miguel De Cervantes nel Prologo della seconda parte del suo Don Chisciotte. Il poeta, allora poco più che ventenne, partecipò alla grande battaglia dove perse l’uso della mano sinistra e si guadagnò l’appellativo in rima, di «el manco di Lepànto». Una battaglia che egli definisce “prodigiosa” e che gli appare come il momento culmine e la più alta opportunità di passione e di gloria («la màs alta ocasion») della storia passata e dei secoli a venire («los venideros»).
Ecco le sue parole che, quanto poche altre, incarnano lo spirito della via cavalleresca, rappresentandone un fulgido esempio:
«Quel che non ho potuto mandar giù è quella critica di vecchio e di monco; come se fosse dipeso dalla mia volontà di fermare il tempo in modo che per me non passasse e come se fossi rimasto storpiato in una bettola invece che nel più glorioso scontro che abbian visto i secoli passati, presenti e futuri. Se le mie ferite non brillano agli occhi di chi le guarda, per lo meno sono apprezzate da coloro che sanno dove furon ricevute; perché un soldato fa miglior figura morto in battaglia che salvo nella fuga. Io ne son tanto persuaso che se oggi (cosa impossibile) mi facessero scegliere, preferirei rimanere storpiato, come son rimasto in quel prodigioso combattimento, piuttosto che d’esser sano ma senza avervi preso parte. Le ferite che il soldato mostra sulla faccia e sul petto sono stelle che guidano gli altri al cielo dell’onore e al desiderio della giusta lode; e bisogna poi tener presente che non si scrive coi capelli bianchi, ma coll’intelligenza, la quale cogli anni diventa sempre migliore»[6].
Oltretutto, proprio quel giorno il nostro hidalgo soffriva di una forte febbre, tanto che il comandante del «La Marquesa», la galea cui era assegnato, aveva mostrato in un primo momento l’intenzione di allontanarlo dalla incombente battaglia. Ma grazie alla sua ostinazione, Cervantes, il quale piuttosto che rimanersene in branda sottocoperta avrebbe preferito morire, ottenne il comando di un battello di dodici uomini, col quale, ponendosi al fianco della Marquesa, si inoltrò sempre più sotto le navi turche. Fu proprio durante tale azione che partirono i colpi nemici che gli ferirono il petto e gli amputarono la mano sinistra.
Per ironia della sorte, poco più di due anni prima della Battaglia di Lepanto, ossia nel settembre del 1569, egli era dovuto fuggire dalla Spagna, rincorso da un ordine di arresto firmato da Filippo II. Cervantes aveva infatti ferito in duello un altro cavaliere, reato la cui pena prevedeva proprio il taglio della mano destra. E’ curioso osservare come, senza di essa, difficilmente avrebbe potuto arruolarsi tra i volontari della compagnia di Diego de Urbina e prendere parte all’epica battaglia di Lepanto[7].
Miguel De Cervantes rimane un «uomo della vecchia Spagna, la Spagna dei cavalieri e dei santi, di Zurbaran e di El Greco (ora rinnegata da certi nuovi credenti)»[8], della Spagna di Santa Teresa D’Avila. Egli è l’autore di un’opera, il Don Chisciotte, che disegna per davvero lo spirito europeo della seconda metà del Cinquecento, caratterizzato come esso è da una profonda scissione che si va oramai innegabilmente consumando tra quei nascenti moderni valori della borghesia mercantile, del pragmatismo, del profitto, e quelli antichi, morenti, della tradizionale nobiltà cavalleresca.
ANTONIO ARCURI
[1] H. A. L. Fischer, Storia d’Europa II, Rinascimento, Riforma, Illuminismo, Laterza, Bari 1961, p. 145.
[2] Nicolò Rodonico, cit. in.: Massimo De Leonardis, Il significato storico della Battaglia di Lepanto: Cristianità. Occidente e Islam, http://blog.messainlatino.it/2011/10/7-ottobre-2011-nel-cdxl-anniversario.html.
[3] Cristina Siccardi, La Madonna del Rosario e la Battaglia di Lepanto, https://www.corrispondenzaromana.it/la-madonna-del-rosario-e-la-battaglia-di-lepanto/.
[4] Einaudi, Torino 2010.
[5] Cit in Massimo de Leonardis, op. cit.
[6] Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, edd. C. Segre e D. Moro Pini, traduzione F. Carlesi, (2voll) Prologo volume secondo, Mondadori, Milano 2004, pp.587-88.
[7] Cfr, C. Bologna, Il Cavaliere della Fede che ci fa saggi con la sua follia, Introduzione in M. De Unamummo, Vita di don Chisciotte e Sancho Panza, Bruno Mondatori, Milano 2005, pp. XXIII-XIV, p. XIV.
[8] Aldo Bartarelli, Miguel Cervantes alla Battaglia di Lepanto, https://it.cultura.cattolica.narkive.com/4SEMpw3C/cervantes-a-lepanto