Miniatura tratta dal Codex Manesse (XIII-XIV sec.)
Prima di affrontare il tema, anche tenendo presenti le moderne mistificazioni, è opportuno richiamare alla mente il concetto di “Cavalleria” la quale, in Occidente, ebbe la sua massima espressione nel Medioevo cristiano.
Cavalleria è la Via dell’azione finalizzata al servizio della verità e della giustizia. L’azione chiusa in sé stessa, priva di superiori punti di riferimento, corre ad ogni passo il rischio di perdere di vista il fine ultimo cui essa è subordinata e dal quale deriva, unicamente, la propria legittimità. Perché l’azione sia giusta, occorre che, oltre al fine che si propone, sia giusto l’intendimento e la disposizione del cuore: senza il recte scire non esiste il recte agere.
L’ideale della Cavalleria fa proprio il concetto romano di “bellum iustum” e si propone di realizzarlo, in tutte le sue implicazioni, nella vita del Cavaliere e nel mondo. Il combattimento è giusto quando è finalizzato al raggiungimento di un fine giusto e quando lo spirito che anima il combattente trae il proprio essere, l’ispirazione e la forza che lo sostiene da un superiore ideale di giustizia e di verità. Senza verità non v’è giustizia e fuori della giustizia la verità non può sussistere. Ciò significa che: per propria natura, tale ideale trascende i confini degli interessi personali, anche legittimi, e degli interessi di parte. L’ideale della Cavalleria è posto oltre le leggi naturali che spingono a conservare la vita ad ogni costo.
Non può essere raggiunto mediante il solo impiego – anche se strenuo – della forza fisica, dell’intelligenza e del coraggio personale.
Non riguarda esclusivamente la persona del combattente ma, tramite la sua azione, si realizza nel mondo a beneficio del prossimo. La Via del Cavaliere consiste nel testimoniare la verità e nel servire Dio nella persona del prossimo: dei poveri, degli inermi, di chi è ingiustamente perseguitato.
L’ideale del Cavaliere consiste nel porre la forza a servizio della giustizia. Nel mettere la propria spada al servizio di Dio nella persona del prossimo, il Cavaliere manifesta in terra la potenza di Dio che mai è disgiunta dalla misericordia.
Del titolo di Cavaliere – così onorevole che, nel Medioevo i Re non esitavano a mettersi in ginocchi dinanzi a un Cavaliere per ricevere l’investitura – spesso si fa un uso profano, o improprio. Non si è Cavaliere perché si è ricevuta dallo Stato una medaglia per qualche merito pubblico. Non si è Cavaliere perché si fa parte di un Ordine e se ne portano le insegne. Si è Cavaliere solo quando si è ricevuto il sacramentale dell’investitura, sacramentale “costitutivo” perché imprime nella natura del postulante un carisma indelebile che lo fa Cavaliere in eterno e veicola sulla sua persona le grazie necessarie al compimento del proprio compito. L’investitura, che prescinde dall’appartenenza a un Ordine, può essere conferita unicamente da un vescovo, usando il rituale codificato nel Pontificale Romano, o da un Cavaliere a sua volta regolarmente investito.
Ed ora, chiediamoci, nella dura, quotidiana via della guerra quale è il ruolo dell’amore e della donna? Cosa rappresenta, per il Cavaliere, l’amore? Come egli lo vive? Salvo i casi di consacrazione all’interno di un Ordine comportanti dei voti specifici, la professione cavalleresca non impedisce di amare, prescrive, però, di amare d’accordo allo spirito e agli ideali che Cavalleria si propone.
L’onore e la purezza, le due virtù fondanti senza le quali la Via della Cavalleria cessa di esistere, sono le medesime cui il Cavaliere consacra la propria persona nel vivere l’esperienza d’amore.
L’onore gli impone, innanzitutto di non rinnegare la sua completa dedizione alla Via che, nel giorno dell’investitura, il Cavaliere ha giurato di seguire con coraggio in povertà e ricchezza, in pace e in guerra, nella vittoria e nella sconfitta finché morte non sopraggiunga.
Un amore che impedisse la santa Cerca, che avvincesse l’anima al punto di farle perdere di vista la missione cui è destinata e in vista della quale ha preso albergo nel corpo, che impedisse al cuore di tendere, con coraggio e abnegazione, oltre ogni ostacolo e alla mente di rimanere limpida e libera, diverrebbe esso stesso un ostacolo.
La dolcezza, di cui il frutto d’amore è colmo, è di segno opposto rispetto all’asprezza che caratterizza la via del guerriero. Questa caratteristica, se vissuta con la giusta disposizione, può fare dell’amore un alleato prezioso e può spingere il Cavaliere a compiere imprese che lo rendano degno di godere dei frutti dell’amore. Al contrario, venendo meno la nobiltà interiore, l’esperienza d’amore finirebbe per rinchiudere il Cavaliere in una gabbia dorata. Allontanandolo dal compimento del proprio dovere, può spingerlo a porre la propria persona e i propri sentimenti al centro dei suoi interessi, a far di essi il fulcro attorno al quale ruota la propria esistenza. Ma, così facendo, il Cavaliere rinnega Cavalleria poiché deroga al ruolo che essa gli impone: essere un docile, utile strumento al servizio della verità per il trionfo della giustizia nella propria vita e nel mondo.
Amare con onore obbliga il Cavaliere a stringere un patto con colei cui dedica il suo amore: un patto di fedeltà al proprio ideale in virtù del quale egli dedica alla propria Dama il meglio di sé, il suo coraggio, le sue battaglie, le sue vittorie, il suo onore. Il Cavaliere chiama la sua amata Dama, cioè Domina, signora del suo cuore. Il termine “donna”, pur avendo il medesimo significato, è di uso profano e può dar luogo a fraintendimenti.
Un’usanza cavalleresca medievale esprime con chiarezza il senso e la portata di questo patto: il Cavaliere, nell’appressarsi al torneo o nell’entrare in battaglia, vestiva sopra l’armatura la camicia donatale dalla propria Dama, oppure legava al collo il suo fazzoletto, o l’annodava alla punta della lancia. Terminato il torneo, o conclusasi la battaglia, restituiva alla Dama macchiato di sangue, o lacerato dai colpi il pegno d’amore che ella gli aveva concesso. O qualcuno glielo restituiva in suo nome, se Dio aveva disposto altrimenti.
La donna che non spinge l’uomo alla gloria, che non lo sprona a compiere magnifiche imprese, non assolve al massimo dei suoi compiti, non porta a compimento le potenzialità inerenti alla sua natura di donna che consistono in questo: dopo aver resa possibile la nascita sulla terra, propiziare la nascita nei cieli.
Per far ciò, tuttavia, la donna deve essere disposta a rinunciare al possesso della vita di colui che ama, poiché la vita non appartiene al Cavaliere, ma esclusivamente a Dio. La Dama può soltanto reclamare, ella sola, il diritto all’amore del proprio Cavaliere.
Amare con onore significa, per il Cavaliere, rendersi responsabile di fronte a Dio, a sé stesso e al proprio popolo, impegnandosi a custodire l’anima della persona amata contribuendo, col suo amore, a far sì che essa acquisti in bellezza, grandezza e verità. Per il Cavaliere, la donna assolve al compito di un altare sul quale egli depone le offerte più preziose: le teste dei draghi uccisi a singolar tenzone nei recessi più oscuri della propria anima; i fiori colti nei deserti della solitudine in cui s’annidano dèmoni meridiani che la spada non può sconfiggere; le gemme racchiuse in scrigni arcani custoditi da due terribili guardiani: il dubbio e l’angoscia.
Nell’accettare di essere altare, da parte sua, la Dama assolve al suo compito supremo: fungere da intermediaria tra il suo Cavaliere e Dio. «Io son colei che ti faccio andare», dichiara Beatrice al Poeta. Le medesime parole possono e debbono essere pronunciate dalla Dama nei confronti del Cavaliere. In tal modo, pur non essendo coinvolta direttamente nell’esercizio della Via della guerra, ella diviene custode del fuoco che arde nel cuore del guerriero. Divenendo tale, assolve al più sacro dei suoi compiti: la maternità spirituale cui, nella Tradizione romana, allude il mistero del fuoco sempiterno di Vesta; o il mito di Egeria, ispiratrice di Numa.
Amare con onore significa amare con fedeltà. Un poeta fiorito alla corte degli Svevi dichiarava con fierezza: «La mia fede è più casta e più diritta ch’asta». La fedeltà in amore si rivela un’arma strategica di grande valore perché, impedendo alle potenze dell’anima di disperdersi in mille rivoli, le unifica e dirige consacrandole al conseguimento dell’ideale. L’amore è un patto cavalleresco di fedeltà alla propria Dama e alla propria Via. Oppure non è.
Amare con onore significa non dover mai vergognarsi del proprio amore, non essere mai costretti a rinnegarlo dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini. Amare con onore significa, per il guerriero, essere fiero del proprio sentimento, fiero della propria donna nella certezza del dovere compiuto nella volontà protesa verso il dovere da compiere.
La purezza, il secondo elemento distintivo dell’amore cavalleresco, è inseparabile dall’onore. Senza onore, non v’è purezza e senza purezza l’onore cessa di esistere.
Amare con purezza significa amare la donna nella sua totalità: la riduzione a oggetto di piacere offende la donna e degrada l’uomo. Nel caso specifico, allontana inevitabilmente il Cavaliere dal compimento del proprio dovere perché ne limita la libertà, ne offusca la mente e lo rende schiavo dell’istinto. La Cavalleria è Via d’onore e di purezza. Oppure non è.
Purezza impone al guerriero il controllo della propria sfera istintuale (la vittoria sul drago). Impone moderazione nel mangiare e nel bere; nel pensare e nel parlare; nel vestire; nel dormire e nel vegliare; nella gioia e nel dolore.
Purezza tempera l’ira con la magnanime misericordia; modera l’orgoglio con l’esercizio dell’umiltà che consiste nel confrontare continuamente sé stessi con i più grandi, i santi e gli eroi, prendendoli ad esempio.
Castità non prescinde dall’amore, ma lo rende luminoso e fecondo permettendo al cielo di congiungersi alla terra per produrre frutti copiosi.
Da parte sua, l’unico amore che la Dama si degnerebbe di prendere in considerazione senza venir meno al suo ruolo e senza ledere al suo onore, è un amore casto, termine che comprende la fedeltà nell’esclusiva dedizione alla sua persona e comporta, da parte dell’amato, la purezza nel sentimento e nelle manifestazioni concrete dell’amore.
Casto è il Cavaliere che, nel compiere il suo cammino, non pone l’amore al disopra della Via, ma al centro di essa.
Casto è il Cavaliere che, nell’amore, non pone l’istinto al disopra del cuore, ma il cuore al disopra degli istinti.
Casto è il Cavaliere che, amando, non fa della propria Dama una persona al suo servizio, ma si pone al servizio della propria Dama.
Casti sono il Cavaliere e la Dama che, coscienti del loro ruolo, pongono sé stessi e il loro amore a servizio della Via.
Il mistero della Dama, nella Via della Cavalleria, non riguarda la generazione sulla terra, concerne la generazione nei cieli.