«Qual è il segreto del Graal? Di chi è al servizio?» Su queste imperiose domande, sapientemente esposte nella pellicola di John Boorman del 1981: Excalibur (domande peraltro non poste da Parsifal, il quale, nelle fonti medievali, per tale motivo è condannato all’erranza) si sono costruite teorie ed accesi infiniti dibattiti, da parte non solo di medievisti e filologi ma anche di psicoanalisti, sociologi ed antropologi. Parallelamente, tutto uno stuolo di autori new age, ricercatori spesso improvvisati, ha preteso di cimentarsi sui temi graalici, mostrando però di non possedere una preparazione adeguata e quindi, di fatto, indebolendo assai il proprio impianto ermeneutico. Parimenti, certa narrativa (per non parlare delle serie televisive) non si è fatta scrupolo di sconvolgere l’assetto simbolico-sacrale che struttura le opere classiche del ciclo, alterando in profondità la precisa funzione mitopoietica di vicende e personaggi.
In questo nostro breve intervento, ci occuperemo delle principali tesi avanzate da alcuni fra i più autorevoli studiosi, i quali hanno scandagliato gli intricati fondali della storia con l’intento di risalire, sulla base di una valida documentazione, alla genesi di quello che viene considerato uno dei simboli chiave della tradizione cristiana medievale e non solo – come vedremo – il Graal.
Una “cerca” (termine quanto mai appropriato) tradottasi ben presto in un intenso dibattito scientifico verso la fine del XIX secolo (e tutt’ora aperto) tra i sostenitori di quelle che, in sostanza, potremmo definire le due posizioni principali assunte dagli accademici, riguardo le origini di questo antico simbolo: quella liturgico-cristiana e quella celtica. Due posizioni, a nostro avviso, niente affatto inconciliabili, dal momento che le stesse supposte origini graliche, quella liturgica-cristiana e quella celtica, sarebbero entrambe emanazioni di quella matrice indoeuropea, fucina culturale del pensiero occidentale, come pure di quello orientale, nel suo versante indo-iranico. Nonostante ciò, comunque, da parte della critica filologica ed accademica in genere, registriamo una certa tendenza alla loro contrapposizione, a causa forse di quel bisogno, di quelle inclinazioni, proprie della ragione umana prima ancora che dello studioso, di ricondurre tutto ad un confronto di tipo dualistico.
Riteniamo opportuno, come premessa, accennare brevemente all’etimologia del termine Graal, quantomeno a quella più comunemente accettata. Già Helinand di Froidmond, allievo di Abelardo, nel suo Chronicon (1123 ca.) ci informa che con la parola tardo latina gradalis, da cui deriverebbe il termine Graal, si intende un recipiente largo e profondo, usato come contenitore di cibi pregiati, indicato anche con il termine volgare graalz (graaus in lingua d’oil), metonimia indicante anche il contenuto, oltre al contenitore. Tale termine sarebbe usato ancora oggi in Francia per indicare un utensile da pasto, la cui origine viene fatta risalire al termine latino crater, che il lettore appassionato di temi ermetici non faticherà a ricollegare al vaso della conoscenza, nel quale gli uomini sono invitati ad immergersi, con l’uso dell’intellectus, per venire iniziati ai misteri assoluti, come vedremo in seguito.
Consideriamo necessaria, a questo punto, una sia pur breve esposizione delle vicende del Graal, tentando di evidenziare alcuni elementi che ne tipicizzano lo schema mitopoietico, con riferimento soprattutto a quei testi che, successivi al Perceval o Conte du Graal di Chrétienne de Troyes (con particolare riguardo alla trilogia di Robert de Boron), segnano marcatamente il passaggio ad un ambito simbolico-sapienziale nettamente cristiano.
La storia del Graal ha inizio dopo la crocefissione del Cristo, quando uno dei suoi seguaci, Giuseppe D’Arimatea, raggiunge la Britannia portando con sé la Coppa contenente il sangue del Redentore, la cui custodia viene affidata per secoli, ad una stirpe di cavalieri-guardiani.
Al tempo di Artù, il Graal è custodito da un valoroso cavaliere in una maestosa fortezza, degna di un tesoro così prezioso, fonte di enorme potere. Ma la passione coglie in fallo il suo custode, il quale, per amore di una donna, si batte a duello, rimanendo ferito ad una gamba. Si tratta di una ferita che non può guarire, condanna della sua mancata difesa del Graal per battersi a tenzone, avendo ceduto alle passioni. La terra intorno alla fortezza comincia così ad inaridire e il cavaliere (che sebbene ferito mortalmente, non può morire) perde le sue forze. Solamente pescando egli riesce a dimenticare le sue sofferenze. Ma la speranza è l’ultima a morire: un’antica profezia, infatti, parla di un innocente giovane cavaliere in grado di porre fine a questa maledizione con una domanda precisa, domanda che avrebbe il potere di guarire il custode del Graal e con lui, la terra desolata.
In una foresta lontana dal Graal e dagli uomini, in Galles probabilmente, vive una vedova, che ha perso in guerra marito e figli tranne il più giovane di essi, Parsifal. Questi, un giorno, affascinato dalla vista di un gruppo di cavalieri, intuisce di essere destinato a diventare uno di loro. Decide dunque di seguirli, incurante di abbandonare la madre, che cade a terra morente con il cuore spezzato, senza che egli, non voltandosi mai dietro, possa accorgersene. Raggiunge così il castello di Re Artù a Camelot, dove al suo ingresso si ode una risata di donna che, sempre secondo un’antica profezia, manifesta la presenza di un uomo valoroso in grado di intraprendere la cerca del Graal. Il giovane Parsifal, per ordine di Artù, viene così iniziato alla Cavalleria e ai suoi segreti da Gornemant, segreti tra i quali, oltre ai voti di coraggio ed onore, emerge importantissimo quello del silenzio.
Divenuto cavaliere, il nostro, preso dal rimorso per aver abbandonato la madre, si mette in cammino per raggiungerla, ma una fitta nebbia lo conduce sulle tracce di un pescatore e del suo destino. Vedendolo smarrito, il pescatore lo invita alla sua dimora, che si rivela essere il castello del Re Pescatore, la fortezza del Graal. Qui, al desco del sovrano, Parsifal assiste ad una processione rituale, dove alla luce delle candele scorge diversi oggetti, tra cui una lancia insanguinata e un calice abbagliante, portato da una dama, oltre cui appare un magico convivio. Parsifal si accorge che il suo ospite appare ferito e tormentato, ma in onore al cavalleresco codice del silenzio, trasmessogli da Gornemant, si guarda bene dal chiederne i motivi, pur avendone l’intenzione.
Svegliatosi, il mattino successivo, si accorge che il maniero è disabitato e il Graal scomparso. Incontra però una fanciulla, la quale gli chiarisce che non avendo domandato al Re Pescatore le ragioni delle sue afflizioni, egli ha perduto l’occasione di penetrare il segreto del Graal.
Parsifal vaga allora per anni, allontanandosi da Dio; e quando sembra aver del tutto smarrito la speranza di ritornare il cavaliere innocente di un tempo, incontra un vecchio eremita, grazie al quale comprende fin dove è stato sospinto dal proprio ego: dapprima, rendendosi colpevole della morte della madre e poi della perpetuazione delle sofferenze del Re Pescatore, dal momento che, sempre per orgoglio, non si è mostrato compassionevole, dote fondamentale per un cavaliere, al di là del codice del silenzio.
Grazie alla consapevolezza raggiunta per mezzo delle rivelazioni del vecchio eremita, che scopre essere suo zio e al contempo anche fratello del Re Pescatore, Parsifal, rinunciando al proprio ego, ritrova Dio, riuscendo così a risanare le ferite del Re Pescatore e restituendo al Graal tutto il suo potere. Secondo l’eremita, il Graal è sacro e per perpetuarsi ha bisogno dell’Ostia, proprio come lo stesso Parsifal, che d’ora in poi dovrà recarsi in chiesa tutti i giorni per espiare i propri peccati.
Dopo questo breve excursus sulle principali vicende graaliche, torniamo ora ai termini in cui si è sviluppato il dibattito scientifico. Per ciò che concerne la corrente che chiameremo “celtica”, essa ha visto numerosi sostenitori, a partire da Alfred Nutt (1888) fino ad arrivare a Douglas David Roy Owen (1968) passando per Roger Sherman Loomis. Quest’ultimo, in uno studio del 1933, ipotizza l’origine irlandese del mito del Graal ed il suo conseguente sviluppo in ambito gallese; mentre altri, soprattutto William Albert Nitze (1946), ritengono non si possa prescindere dal riconoscere la fusione di elementi celti e cristiani, anche greco-ortodossi, nella genesi mitopoietica del Graal[1].
A nostro modo di vedere, il merito principale di quest’ultima tesi è proprio quello di essere giunta all’associazione dei due elementi – la via celtica e quella cristiana – i quali concorrerebbero reciprocamente alla creazione del mito del Graal. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che entrambi appartengono a quella comune radice indoeuropea cui accennavamo precedentemente. Certo, per quanto riguarda la configurazione della via cristiana, al suo interno scorgiamo non solo elementi indoeuropei, particolarmente individuabili nella riflessione filosofico-ellenistica sul messaggio di Cristo, ma anche semiti e mediorientali.
La studiosa belga Rita Lejeune, in un suo saggio del 1951, sottolinea come, etimologicamente, alla genesi del sostantivo Graal, contribuiscano termini propri della langue d’oc (grael) e della langue d’oil (grazal)[2]. Il suo contributo maggiore all’ipotesi celtica sta nell’affermazione che tra le righe dell’opera di Chretien De Troyes, comparirebbe più volte, anche se in codice, il nome della dea madre irlandese Dana o Ana, vera latrice del Graal e progenitrice della stirpe iperborea dei Tuatha dé Danann, coloro che portarono ad Avallon gli oggetti del potere: una pietra, una lancia, una spada ed un calderone; tutti elementi che compaiono nei racconti graalici. Basti qui accennare all’identificazione del Graal con una pietra nel Parzival di Wolfram Von Eschenbach; alla spada fiammeggiante di Nuadu, progenitore monco dei sovrani irlandesi, figura associabile per taluni versi a quella del Re Pescatore e possessore di quella spada che nel racconto di Goffredo di Monmouth diviene la Excalibur di arturiana memoria. Inoltre, troviamo la lancia sanguinante di Oengus, sovrano dei Tuatha dé Danann che è ricollegabile anche alla Lancia di Longino; infine, con particolare rilevanza mitico-simbolica, il calderone di Dagda, il dio dispensatore di sapienza ed immortalità, che dona la resurrezione ai prodi combattenti periti in battaglia.
Interessanti ed approfondite associazioni che ci offre Mario Polia nel suo Il Mistero Imperiale del Graal[3], dove, oltretutto, si segnala come in alcuni racconti tradizionali irlandesi compaiano «elementi simbolici atti a dimostrare la profonda relazione che intercorre tra la coppa o il calderone, l’acquisizione della sapienza, il possesso di certe virtù e una contrada mitica, la “Terra della Promessa”, che presenta tutte le caratteristiche della sede della Tradizione Primordiale, la Terra degli Iperborei della tradizione greca»[4].
Riprendendo il filo della diatriba accademica, notiamo che nel 1952, Jean Marx pubblica il suo La Légende Arthurienne et le Graal[5], la summa degli studi relativi all’ipotesi celtica in riferimento al ciclo arturiano. Se nella prima parte lo studioso si sofferma su tutti gli oggetti magici propri della tradizione celtica che ritroviamo nel ciclo bretone, nella seconda arriva a presupporre l’influenza della matrice celtica sulla stesura dell’opera di Chretien De Troyes, cui dobbiamo il primo racconto, peraltro incompleto, sul Graal. Nel far ciò, Marx mette in evidenza la somiglianza tra il racconto celtico della processione cui assiste il principe Faech in visita al castello del re, suo futuro suocero, con quello della processione del Graal cui assiste Parsifal nel salone di un altro sovrano, il Re Pescatore. Nel sostenere la sua tesi, Marx si preoccupa di sgombrare il campo dall’ipotesi di un’origine esclusivamente cristiana del Graal, asserendo come non vi sia traccia di sacerdoti nel racconto della processione del Graal, la cui latrice si rivela essere una fanciulla, cosa (apparentemente) inconcepibile, per lo studioso, perlomeno in ambiente cristiano. Sempre nel periodo in cui scrive Chretien de Troyes, aggiunge Marx, la comparsa, nel racconto, di un contenitore miracoloso, non può essere facilmente accettata se non per il tramite di storie in quei tempi più fruibili, come quelle aventi per oggetto i miracoli eucaristici, onde ricondurre tutto nel solco della tradizione cristiana, testimoniata solamente dalla presenza dell’Ostia. Proprio qui, a nostro modo di vedere, giace la debolezza della tesi di Marx, peraltro incontestabile in altri punti, perché se l’Ostia è – come è – il Corpo di Cristo, quale miglior latrice del Graal che una donna simboleggiante la stessa Beata Sempre Vergine Maria? «Il solo Crater che abbia mai veramente contenuto il Sangue Reale» (o il Corpo di Cristo) come afferma Massimiliano Cacciatore[6]; asserzione che trova, peraltro, interessanti conferme anche nelle ricerche di Manuel Insolera[7].
Inoltre, se, come aggiunge Marx, la Chiesa di Roma mai avallò i racconti sul Graal, avvertendone il pericolo rappresentato dalla loro origine celtica e dunque pagana, come interpretare il carattere “inclusivo” delle missioni evangelizzatrici in Irlanda con san Patrizio (sulla quale torneremo) e in Britannia con Agostino da Canterbury? Quest’ultimo, infatti, per espressa volontà dello stesso Gregorio Magno, la prima vera, splendida figura di papa medievale, si adoperò per cercare di convogliare nell’alveo della tradizione cristiana, quei tratti culturali propriamente celti con essa affatto in contrasto e ad essa del tutto assimilabili.
Certo è che per la stessa Chiesa romana medievale le vicende graaliche avrebbero potuto corroborare tesi eretiche, dal momento che la figura del cavaliere solitario sembrerebbe porre, ad un primo superficiale sguardo, l’accento sul carattere individuale di una ricerca spirituale priva della guida di chierici intermediari. Ciò, tuttavia, solo a patto di ignorare la figura degli eremiti che compaiono nei racconti graalici, fondamentale chiave di volta in tali narrazioni.
Chi ha saputo sapientemente interconnettere i due aspetti, celtico e cristiano, nel simbolismo del Graal, non tacendo comunque i suoi rapporti anche con la tradizione islamica, è stato l’eminente studioso Nuccio D’Anna. Nel suo volume Il Santo Graal egli pone, infatti, tali elementi alla base della mitopoiesi graaliana, a partire da Chretien De Troyes e dalle quattro continuazioni apocrife della sua narrazione, fino ad arrivare ai racconti di area tedesca con Von Eschenbach e Von Scharfenberg, passando per la trilogia di Robert de Boron[8]. Secondo lo studioso, la profonda comprensione del simbolismo graalico non può prescindere dai suoi legami con il mondo druidico e con il monachesimo cristiano, cluniacense e cistercense, presente in quegli ambienti dove assistiamo proprio alla genesi delle vicende del Graal. Scavando ancora più a fondo, come non accostare quelle figure di eremiti, presenti nei racconti del Graal e determinanti nello sbrogliare la matassa del complesso simbolismo alla base di tali vicende, ai druidi della cultura celtica antica? Continuando poi lungo la medesima direttrice di ricerca troviamo quei monaci pellegrini, «Graal viventi», come li ha meglio definiti D’Anna, estrema sintesi dell’incontro tra le due tradizioni. Queste originali figure di religiosi sono alla base di «quella particolare forma tradizionale che è conosciuta come Cristianesimo celtico, i cui monaci e i cui eremiti hanno costituito il tramite per la preservazione degli elementi ‘essenziali’ della spiritualità druidica e la loro ‘trasfigurazione’ nella tradizione cristiana»[9].
Un incontro, dunque, tra due tradizioni, celtica e cristiana, avvenuto nell’Irlanda del V secolo, su differenti piani, se vogliamo. Innanzitutto, su quello spirituale, una volta che, come vuole la tradizione, San Patrizio, da profondo conoscitore della cultura celtica, in un’epica impresa riesce nell’opera di conversione di quelle figure detentrici del patrimonio sacro celtico-irlandese, i filid, su cui si sofferma anche l’indagine di D’Anna. Proprio qui sta la maestosità dell’opera d’evangelizzazione dell’Irlanda: nella conversione dei filid e nella loro conseguente consacrazione a vescovi della primigenia chiesa irlandese. Tutto ciò ha reso possibile il passaggio, in ambito cristiano, di quell’antica spiritualità, niente affatto in antitesi con la religione cristiana, donandole, al contempo, quei caratteri originali propri del Cristianesimo celtico, tra i quali il pellegrinaggio inteso come forma ascetica – prima ancora che come modalità di evangelizzazione – e come manifestazione esteriore di un cammino interiore tutto rivolto verso il Centro. Un incontro metastorico, sul piano spirituale e quindi su quello simbolico, scaturigine della sintesi mitopoietica all’origine del Graal, così come lo conosciamo, da Chretien in poi.
Ora, ad eccezione del Parzival di Von Eschenbach, il quale ci descrive il Graal come una pietra preziosa, dai poteri miracolosi, il lapsit exillis (probabilmente, la pietra discesa dal cielo), simbolo della grazia di Dio che arricchisce gli astanti, le altre narrazioni del ciclo lo raffigurano come una coppa o come un piatto abbastanza ampio. Sempre Von Eschenbach, per citare F. Zambon:
«in precedenza […] aveva illustrato l’origine celeste del Graal, dichiarando di aver tratto tutta la sua storia da un libro, scritto in ‘lettere pagane’, cioè in arabo, e poi tradotto in francese da Kyot il Provenzale, che lo avrebbe trovato a Toledo. L’autore di questo libro, Flegetanis, pagano per parte di padre ma discendente da Salomone per parte di madre, avrebbe letto chiaramente il nome del Graal tra le stelle […]. Il complesso di idee e di simboli che Wolfram Von Eschenbach elabora intorno all’immagine del Graal rinvia a concezioni ermetiche e astrologiche solo indirettamente collegate alla teologia cristiana. Come hanno mostrato Henry e Renée Kahane in un fondamentale studio poi ripreso e approfondito da Henri Corbin, esso ha la sua origine nel mito del cratere sviluppato nel IV trattato del Corpus Hermeticum […] Il tema dello scritto, intitolato appunto Il Cratere o La Monade, è il dono dell’intelletto (nûos) e la risalita dell’uomo verso Dio che tale dono consente […] Le corrispondenze tra questo testo e il Graal sono molto strette: anche il Graal è un oggetto di origine celeste, destinato esclusivamente a una cerchia di eletti, ai quali assicura l’immortalità»[10].
Certo che se Il Parzival di Von Eschenbach sembra distante da temi propri della dottrina cristiana, nonostante accosti il Graal all’Eucaristia (la qual cosa non ci appare, comunque, affatto secondaria nell’analisi delle origini dell’opera), con il Giuseppe d’Arimatea di Robert de Boron e con la Queste del Saint Grail, per parafrasare sempre F. Zambon, veniamo ricondotti su quei binari tipici della teologia e della mistica cristiane.[11]
Proprio Von Eschenbach, tuttavia, suggerisce la presenza di elementi della tradizione graalica anche in ambito persiano, tematica della quale, tra gli altri, si è occupato il succitato Corbin. Questi, in Liturgia sciita del Graal[12], ci descrive il «rituale della coppa»: una sorta di rito iniziatico istituito dallo stesso Maometto, che implicherebbe l’accesso alla Legge, alla Conoscenza ed alla Sapienza, riprendendo così quei temi, propri dell’ermetismo, cui abbiamo già accennato. Un rituale che ci conduce apertamente verso quella gnosi sciita nella quale si fondono tradizioni sufi, cristiane e mazdee, come ci ricorda I. Cuocolo, secondo il quale:
«In base a queste prove sembra legittimo poter affermare che le due tradizioni, quella ‘europea’ e quella sciita ‘persiana’ (entrambe di comune origine indoeuropea), troppo simili per essere indipendenti, abbiano una medesima ‘fonte’ indoeuropea, derivando dall’archetipo comune della Coppa, oggetto simbolo di regalità̀, dispensatore di beni e immortalità̀, sopravvissuto e sviluppatosi poi parallelamente e indipendentemente nelle diverse culture derivate dalla medesima radice “indoeuropea”. Il rituale della Coppa richiama alla mente, infatti, anche l’uso del Krater (Graal/Coppa) nei misteri mitraici ed è di importanza centrale anche nei riti vedici e nelle liturgie brahmanico-induiste»[13].
Al di là di tutte le considerazioni fin qui espresse, è fuor di dubbio che all’interno delle narrazioni mitiche del Graal compaiano elementi costituenti un certo qual lato “interiore” del Cristianesimo, la cui esistenza può venire apprezzata tanto oggi quanto lo era, a maggior ragione, nel Medioevo; e ciò, peraltro, ben oltre quanto possano affermare i suoi detrattori. Tale versante, che ben possiamo definire d’ordine “sapienziale”, «diviene più profondo ed autentico per quanto più profonda ed autentica diviene la vita spirituale fino a quando il cuore diviene la Santa Coppa che custodisce il sangue del Redentore»[14].
In conclusione, se da un lato, in una visione tradizionale, dunque, perde senso il voler ricondurre motivi come il calderone della rinascita o la lancia sanguinante dalla tradizione celtica primitiva a quella cristiana come pure a quella indo-iranica, dall’altro, insieme con Polia, dobbiamo osservare che, al di là di ogni ragionevole dubbio,
«tutta la tematica graalica si svolge attorno ad un simbolo, la Santa Coppa, intimamente connesso al mistero della morte e redenzione del Cristo ed al potere vittorioso e redentore del Sangue contenuto nel Graal, oggetto della Cerca. Allo stesso tempo, nelle saghe medievali, coloro che compiono la Cerca sono Milites Christi: Cavalieri di Cristo che credono, pregano, s’accostano ai sacramenti e combattono a maggior gloria di Dio. Cavalieri accomunati da un ideale: il raggiungimento della Celeste Cavalleria e la realizzazione del Regno di Dio in questo mondo mediante l’istituzione imperiale della quale Cristo re è la sua origine e il Regno dei Cieli il suo modello. Nella figura emblematica di personaggi come Galaad, eroe della Cerca, è compendiato l’ideale ascetico e guerriero del Cavaliere cristiano. Il “mistero del Graal” si esprime in un mistero di Sapienza e Potenza che, realizzandosi nella storia, fa sì che la Terre Gaste sia guarita mediante il carisma dell’Imperium che discende da Cristo re sulla persona dell’imperatore, servus servorum Dei preposto all’esercizio della giustizia»[15].
Soltanto alla luce del Cristianesimo, pertanto, le tematiche graaliche, gli archetipi ed i simboli di cui esse sono latrici, raccolgono un particolare significato, trasfigurandosi così in quella guida, in quel raggio di luce in grado di condurci verso l’impervio, sconfinato ed occulto sentiero in fondo al quale il Graal, perennemente immutabile, attende il Cavaliere cristiano in grado di penetrarne il segreto.
NOTE
[1] Cfr. M. Peruzzo, «Tant sainte chose est li graaus»: l’avventura critica del graal cristianiano fra archeologia delle fonti e interpretazione letteraria, www.tesionline.it, 2010, per i riferimenti a: A. Nutt, Studies on the Legend of the Holy Grail, With Especial Reference to the Hypothesis of its Celtic Origin, David Nutt, London 1888; D. D. R. Owen, The Evolution of the Grail Legend, University Court of the University of St Andrews, St. Andrews 1968; R. S. Loomis, The Irish Origin of the Grail Legend, in «Speculum», VIII, (1933), pp. 415-31; W. A. Nitze, The bleeding lance and Philip of Flanders, «Speculum» XXI, (1946), pp. 303-11.
[2] Cfr. M. Peruzzo, op. cit., per i riferimenti a R. Lejeune, Préfiguration du Graal, in «Studi Medievali» XVII (1951), pp. 277-302.
[3] M. Polia, Il Mistero Imperiale del Graal, Il Cerchio, Rimini 1996, pp. 20-35.
[4] Ivi, p. 29.
[5] Cfr. M. Peruzzo, op. cit., per i riferimenti a J. Marx, La Légende Arthurienne et le Graal, Presses Universitaire de France, Paris 1950 / Slatkine, Geneve 2000.
[6] M. Cacciatore, La Spada, la Croce, il Re, in «Fenix», Anno XIII n. 138, pp. 50-56, p. 56.
[7] Ci riferiamo, soprattutto a: M. Insolera, La Chiesa e il Graal, Edizioni Arkeios, Roma 1998, cfr. pp. 80-81.
[8] N. D’Anna, Il Santo Graal, Mito e realtà, Archè/Edizioni PiZeta, Milano–San Donato (MI) 2009.
[9] Ivi, p. 11.
[10] R. Zambon, Prefazione in Il Graal, i testi che hanno fondato la leggenda, Mondadori, Milano 2005, pp. XXXIII-XXXV.
[11] Ivi, cfr. p. XXXV.
[12] Cfr. I. Cuocolo, Le radici indoeuropee nel mito del Graal, www.academia.edu, 2020 per i riferimenti a H. Corbin, Liturgia del Graal, in L’Iran e la filosofia, Guida Editori, Napoli 1992, cfr. pp. 147-172.
[13] I. Cuocolo, op. cit..
[14] M. Polia, op.cit., p. 13.
[15] Ivi, p. 6.