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Papa Leone XIII: Lettera Enciclica “Diuturnum Illud”

Stemma di Papa Leone XIII

 

PREAMBOLO (a cura della Redazione)

La Lettera Enciclica Diuturnum Illud (1881), di Sua Santità Leone PP. XIII, costituisce una tra le più illuminanti testimonianze di quello che è il pensiero tradizionale cattolico relativamente all’amministrazione della “cosa pubblica”, al “governo civile”, allorché posti in relazione con l’autorità ecclesiale del Papato.

Nonostante alcuni commenti più recenti tendano “maliziosamente” ad affermare come, da parte di tale Enciclica, non venga posta alcuna preferenza in merito alle forme di regime politico confacenti con la fede cattolica, la lettura attenta del suo testo mostra invece, in maniera chiara ed ineludibile, quanto il Pontefice non solo si riferisca costantemente al Principato ed alla Regalis Potestas nell’alludere al “più consono” esempio di governo temporale (nel senso, quindi, di un “potere monocratico e consacrato”), ma oltretutto esprima estremo dissenso contro le ideologie egualitaristiche e democratiche, sorte all’interno della cristianità a partire dal sec. XVI.

La critica a suddette ideologie non nasce ovviamente da una mancata accettazione dell’uguaglianza tra gli uomini, quanto piuttosto dall’affermazione della derivazione divina dell’autorità; la quale, anche in ambito temporale, non può concedersi come proveniente dal popolo, quasi che esso ne sia il legittimo depositario e promulgatore.

E’ pur vero, scrive Leone XIII, che «coloro i quali saranno preposti alla pubblica cosa, in talune circostanze possono venire eletti per volontà e deliberazione della moltitudine, senza che a ciò sia contraria o ripugni la dottrina cattolica. Con tale scelta tuttavia si designa il Principe, ma non si conferiscono i diritti del principato: non si dà l’Imperio, ma si stabilisce da chi deve essere amministrato».

Va ancora precisato che, effettivamente, il Pontefice qui non fa «questione dei modi del pubblico reggimento, poiché non vi è alcuna ragione perché la Chiesa non approvi il principato d’uno o di molti, purché esso sia giusto e rivolto al comune vantaggio. Pertanto, salva la giustizia, non s’impedisce ai popoli di procurarsi quel genere di reggimento che meglio convenga alla loro indole, o alle istituzioni ed ai costumi dei loro maggiori».

Tuttavia, anche sorvolando sul fatto che tali istituzioni e costumi antichi, antecedenti al XVI sec., erano basati piuttosto sul potere “monocratico”, o tutt’al più “aristocratico”, che non certamente su quello “democratico”, l’Enciclica afferma pure che: «Soltanto a Dio, creatore e legislatore di tutte le cose, appartiene questo potere: e quelli che lo esercitano lo debbono esercitare come trasmesso loro da Dio. “Uno solo è il legislatore e il giudice che può perdere e liberare” (Gc 4,12). […] Similmente la potestà dei padri di famiglia reca espressa in sé una certa effigie e forma dell’autorità di Dio “da cui ogni paternità prende nome in cielo e in terra” (Ef 3,15)».

In altre parole, Leone XIII allude al fatto che, in quanto il “potere” deriva direttamente da Dio ed in quanto Egli è Uno, per “analogia” ne consegue che il potere più preferibile, perché più simile a quello divino, è quello “monocratico”. Oltretutto, suddetta concezione della “gerarchia” fondata sull’“unicità del potere” viene rafforzata quando, ammonendo i governanti a guardarsi dal perseguire il proprio privato vantaggio, il Pontefice li invita ad essere vere e proprie “immagini di Dio”.

Come dicevamo, accanto alla questione del  carattere “monocratico” del potere compare anche quello relativo alla sua “sacralità”. L’Enciclica afferma infatti che «[…]dopo che gli Stati ebbero Principi cristiani, la Chiesa insistette maggiormente nell’affermare e nel predicare quanto fosse inviolabile l’autorità dei governanti; dal che doveva avvenire che ai popoli, quando pensavano al principato, veniva alla mente una specie di maestà sacra che li spingeva a nutrire verso i Principi maggiore riverenza ed amore. E perciò sapientemente provvide, affinché i Re fossero solennemente consacrati, come per comando di Dio era stabilito nell’Antico Testamento. Quando poi la società civile, come suscitata dalle rovine dell’Impero Romano, risorse alla speranza della cristiana grandezza, i Pontefici Romani, istituito il Sacro Impero, consacrarono in modo singolare il potere politico. Una nobiltà grandissima si aggiunse con ciò al principato; né è da porsi in dubbio che questa pratica avrebbe sempre grandemente giovato alla società religiosa e civile se i Principi ed i popoli avessero sempre avuto mire uniformi a quelle della Chiesa. E infatti le cose rimasero tranquille ed abbastanza prospere, finché fra i due poteri durò una concorde amicizia».

Per concludere, anche la riproposizione di questa Lettera Enciclica mira a contribuire al recupero di una pienamente cattolica consapevolezza della necessità e dell’urgenza della Renovatio Imperii.

 

LETTERA ENCICLICA

DIUTURNUM ILLUD

 

Quella lunga e nefandissima guerra mossa alla divina autorità della Chiesa ha condotto al punto cui essa tendeva, vale a dire al comune pericolo della umana società e specialmente del civile Principato, sul quale in gran parte poggia la pubblica salvezza.

Ciò che è accaduto in questo nostro tempo lo evidenzia in modo particolare. Infatti, oggi le passioni popolari rifiutano più audacemente che mai qualsiasi autorità di comando, ed è tanta dovunque la licenza, sono tanto frequenti le sedizioni e i tumulti, che coloro i quali reggono la cosa pubblica non solo si vedono spesso negata l’obbedienza, ma non vedono abbastanza tutelata la loro stessa incolumità personale. Da lungo tempo infatti si è operato in modo che essi venissero in dispregio e in odio alla moltitudine; ed all’erompere delle fiamme del concepito livore molte volte in breve spazio di tempo la vita dei Principi, o con occulte insidie o con aperti assassinii, è stata esposta a morte. Fu presa testé d’orrore tutta Europa alla nefanda uccisione di un potentissimo Imperatore, e mentre sono ancora attoniti gli animi per l’enormità di tale misfatto, uomini perduti non hanno ritegno di lanciare pubblicamente minacce ed intimidazioni agli altri Principi d’Europa.

Questi pericoli dei comuni interessi che Ci sono dinanzi agli occhi, Ci mettono gravemente in pensiero, in quanto vediamo quasi continuamente minacciate la sicurezza dei Principi e la tranquillità dei regni, unitamente alla salute dei popoli. Tuttavia, però, la divina virtù della religione cristiana ha fornito alla cosa pubblica solidi fondamenti di stabilità e di ordine, non appena penetrò nei costumi e nelle istituzioni civili. Non piccolo né ultimo frutto di tale virtù è l’equo e sapiente temperamento dei diritti e dei doveri nei Principi e nei popoli. Infatti, nei precetti e negli esempi di Cristo Signore è meravigliosa la virtù di moderare nel dovere tanto quelli che obbediscono quanto quelli che comandano, e di mantenere fra loro quel naturale accordo, quasi un’armonia di volontà, da cui nasce il tranquillo e imperturbato corso delle pubbliche cose. Pertanto, essendo Noi, per concessione di Dio, preposti a reggere la Chiesa cattolica, custode ed interprete delle dottrine di Cristo, giudichiamo essere dovere della Nostra autorità, Venerabili Fratelli, ricordare pubblicamente ciò che esige da ciascuno in questo genere di cose la verità cattolica; dal che emergerà anche per quale via ed in quale modo si debba in tanto pauroso stato di cose provvedere alla pubblica salute.

Quantunque l’uomo, spinto da una certa superbia e arroganza cerchi spesso di spezzare i freni del comando, tuttavia non arrivò mai a potere non obbedire a nessuno. Infatti, in qualunque società e comunità umana è necessario che alcuni comandino, affinché la società, priva del principio o del capo che la regge, non si sfasci e non sia impedita di conseguire quel fine per il quale si formò e si costituì. Però se non si poté arrivare ad eliminare il potere dal seno della società civile, furono certo adoperate tutte le arti per togliere ad esso forza e sminuirne la maestà, e ciò principalmente nel secolo XVI, quando una funesta novità di opinioni infatuò moltissimi. Da quel tempo, la moltitudine non solo volle dare a se stessa una libertà più ampia, che fosse di uguaglianza, ma sembrò anche voler foggiare a proprio talento l’origine e la costituzione della società civile. Anzi, moltissimi dei tempi nostri, camminando sulle orme di coloro che nel secolo passato si diedero il nome di filosofi, dicono che ogni potere viene dal popolo: per cui coloro che esercitano questo potere non lo esercitano come proprio, ma come dato a loro dal popolo, e altresì alla condizione che dalla volontà dello stesso popolo, da cui il potere fu dato, possa venire revocato. Da costoro però dissentono i cattolici, i quali fanno derivare da Dio il diritto di comandare come da naturale e necessario principio.

Importa però notare qui che coloro i quali saranno preposti alla pubblica cosa, in talune circostanze possono venire eletti per volontà e deliberazione della moltitudine, senza che a ciò sia contraria o ripugni la dottrina cattolica. Con tale scelta tuttavia si designa il Principe, ma non si conferiscono i diritti del Principato: non si dà l’Imperio, ma si stabilisce da chi deve essere amministrato. Né qui si fa questione dei modi del pubblico reggimento, poiché non vi è alcuna ragione perché la Chiesa non approvi il Principato d’uno o di molti, purché esso sia giusto e rivolto al comune vantaggio. Pertanto, salva la giustizia, non s’impedisce ai popoli di procurarsi quel genere di reggimento che meglio convenga alla loro indole, o alle istituzioni ed ai costumi dei loro maggiori.

Del resto, per quel che riguarda la potestà di comandare, la Chiesa rettamente insegna che essa proviene da Dio; infatti essa trova apertamente attestato ciò nelle sacre Lettere e nei monumenti della cristiana antichità, né inoltre si può escogitare alcuna altra dottrina che sia più conveniente alla ragione e più consentanea alla salute dei Principi e dei popoli.

Infatti i libri del Vecchio Testamento in molti luoghi chiarissimamente confermano che in Dio è la fonte della umana potestà. «Per me i Re regnano…, per me i Principi comandano e i potenti amministrano la giustizia» (Pr 8,15-16). E altrove: «Date ascolto, voi che reggete le nazioni… poiché da Dio vi è data la potestà e dall’Altissimo la virtù» (Sap 6,3-4). Il che è contenuto anche nel libro dell’Ecclesiastico: «A ciascuna gente Iddio prepose il reggitore» (Sir 17,14). Nondimeno queste cose che gli uomini avevano appreso da Dio, a poco a poco le disimpararono per la pagana superstizione. Questa, come corruppe le vere specie delle cose e moltissime nozioni, così corruppe anche la forma genuina e la bellezza del Principato. Poi, quando risplendette il Vangelo cristiano, la vanità cedette alla verità, e nuovamente cominciò a brillare quel nobilissimo e divino principio da cui emana ogni autorità. Al Governatore romano, il quale credeva di avere ed ostentava la potestà di assolvere e di condannare, Cristo Signore rispose: «Non avresti alcuna potestà contro di me, se ciò non ti fosse dato dall’alto» (Gv 19,11). Sant’Agostino, spiegando questo passo, «Impariamo – scrive – ciò che egli disse, e ciò che insegnò anche per bocca dell’Apostolo, che non esiste potestà se non da Dio». Infatti la incorrotta voce degli Apostoli fu sempre come un’immagine della dottrina e dei precetti di Gesù Cristo. Ai Romani, sudditi di Principi pagani, Paolo propone questa sublime e gravissima sentenza: «Non esiste potestà se non da Dio», e da tale principio conclude: «Il Principe è ministro di Dio» (Rm 13,1.4).

I Padri della Chiesa professarono e si sforzarono di diffondere tale dottrina, alla quale erano stati educati. «Non attribuiamo – dice Sant’Agostino – la potestà di dare Regno ed Impero se non al vero Dio». In linea con lo stesso pensiero, San Giovanni Crisostomo dice: «Che vi siano i principati e che alcuni comandino ed altri siano soggetti, e che tutto non vada a caso e in disordine… dico essere opera della divina sapienza». Questo stesso concetto attestò San Gregorio Magno dicendo: «Confessiamo che la potestà agl’Imperatori ed ai Re è data dal cielo». Anzi, i santi Dottori presero ad illustrare questi stessi precetti anche col lume naturale della ragione, affinché anche a quelli che hanno per guida la sola ragione, essi apparissero del tutto retti e veri. In verità la natura, o meglio l’Autore della natura, Dio, impone agli uomini di vivere in società; il che è luminosamente dimostrato e dalla facoltà di conversare, che è la più grande conciliatrice della società, e da moltissime innate tendenze dell’anima e dalla necessità di molte e grandi cose, che gli uomini solitari non possono conseguire, e che uniti ed associati agli altri conseguono. Ora poi non può né esistere né concepirsi una società, in cui qualcuno non temperi le volontà dei singoli, in modo da formare di tutte una cosa sola, e rettamente le diriga al bene comune. Dunque Dio volle che nella civile società vi fossero coloro che comandassero alla moltitudine. Ed è inoltre assai importante che coloro dalla cui autorità la cosa pubblica è amministrata possano obbligare i cittadini ad obbedire, e che il non obbedire sia peccato per questi. Nessun uomo però ha in sé o da sé di che potere con siffatti vincoli di comando legare la libera volontà degli altri. Soltanto a Dio, creatore e legislatore di tutte le cose, appartiene questo potere: e quelli che lo esercitano lo debbono esercitare come trasmesso loro da Dio. «Uno solo è il legislatore e il giudice che può perdere e liberare» (Gc 4,12). Il che si avvera ugualmente in ogni genere di potere. Quello che è nei sacerdoti è tanto noto che viene da Dio, che questi presso tutti i popoli sono ritenuti e chiamati ministri di Dio. Similmente la potestà dei padri di famiglia reca espressa in sé una certa effigie e forma dell’autorità di Dio «da cui ogni paternità prende nome in cielo e in terra» (Ef 3,15). In tal modo i diversi generi di potestà hanno tra loro mirabili somiglianze, in quanto qualsivoglia forma di comando e di autorità trae origine dall’unico e stesso Autore e Signore che è Dio.

Coloro i quali pretendono che la società civile sia nata dal libero consenso degli uomini, derivando dallo stesso fonte l’origine della stessa potestà, dicono che ciascun uomo cedette una parte del suo diritto, e volontariamente tutti si diedero in potere di colui nel quale fosse accumulata la somma dei loro diritti. Ma è grande errore non vedere ciò che è manifesto, cioè che gli uomini non essendo una razza selvatica, indipendentemente dalla loro stessa libera volontà sono portati dalla natura alla socievole comunanza; inoltre, il patto di cui si parla è manifestamente fantastico e fittizio e non vale a dare alla potestà politica tanta forza, dignità e stabilità quanta ne richiedono la tutela della pubblica cosa e i comuni vantaggi dei cittadini. Il Principato avrà tutte queste qualità e tutti questi presidi soltanto se si comprenderà che esso deriva dall’augusto e santissimo fonte che è Dio.

Non si può trovare nessuna affermazione che sia non solo più vera, ma anche più vantaggiosa. Infatti, la potestà dei reggitori civili, essendo quasi una comunicazione della potestà divina, acquista di continuo, per questo stesso motivo, una dignità maggiore della umana: non già quella empia e grandemente assurda cercata un tempo dagli Imperatori pagani, che si arrogavano onori divini, ma quella vera e solida, avuta quasi per dono e beneficio divino. Per cui sarà necessario che i cittadini siano soggetti ed obbedienti ai Principi come a Dio, non tanto per timore delle pene quanto per ossequio alla maestà, non già per motivo di adulazione, ma per coscienza di dovere. Con che l’Impero starà molto più stabilmente collocato nel suo grado. Infatti i cittadini, sentendo la forza di questo dovere, debbono necessariamente aborrire dalla nequizia e dall’arroganza, persuasi, come debbono essere, che chi resiste alla potestà politica, resiste alla volontà divina; che chi rifiuta onore ai Principi, lo rifiuta a Dio stesso.

In questa dottrina l’Apostolo Paolo erudì specialmente i Romani, ai quali sulla riverenza che si deve ai Principi scrisse con tanta autorità e tanto peso da non potersi concepire nulla di più grave. «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite, poiché non c’è autorità se non da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna… Perciò è necessario stare sottomessi non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza» (Rm 13,1.2.5). Consentanea a questa è la preclara sentenza del Principe degli Apostoli Pietro: «State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al Re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni, perché questa a la volontà di Dio» (1Pt 2,13-15).

Una sola ragione possono avere gli uomini per non obbedire: qualora cioè si pretenda da essi qualche cosa che ripugni apertamente al diritto naturale e divino, in quanto ogni volta in cui si vìola la legge di natura e la volontà di Dio è ugualmente iniquo tanto comandare ciò, quanto eseguirlo. Se a qualcuno dunque avvenga di trovarsi costretto a scegliere fra queste due cose, vale a dire se disprezzare i comandi di Dio o quelli dei Principi, sappia che si deve obbedire a Gesù Cristo, il quale comandò di rendere «a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio» (Mt 22,21) e sull’esempio degli Apostoli deve coraggiosamente rispondere: «È doveroso obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29). Né tuttavia coloro che in tal modo si comportano sono da accusare di aver mancato all’obbedienza, poiché se il volere dei Principi ripugna al volere e alle leggi di Dio, essi stessi eccedono la misura della loro potestà e pervertono la giustizia: né in tal caso può valere la loro autorità, la quale è nulla quando non vi è giustizia.

Perché poi nella potestà si mantenga la giustizia, importa grandemente che coloro i quali amministrano le città intendano che il potere di governare non è dato per il loro privato vantaggio, e che l’amministrazione della cosa pubblica si deve condurre a favore di quelli che sono affidati ad essa, non già di coloro a cui essa è affidata. I Principi prendano esempio da Dio ottimo massimo, dal quale è concessa ad essi l’autorità; proponendo a se stessi, nell’amministrare la cosa pubblica, l’immagine di Lui, presiedano al popolo con equità e fede: anche nell’usare quella paterna severità che è necessaria, adoperino la carità. Per questo motivo nelle sacre carte essi sono ammoniti di dovere un giorno rendere conto al Re dei Re ed al Signore dei dominatori; se avranno mancato al loro dovere, non potranno in alcun modo sfuggire alla severità di Dio. «L’Altissimo interrogherà le opere vostre e scruterà i pensieri, poiché essendo voi ministri del suo regno, non giudicaste rettamente [] spaventosamente e presto egli vi apparirà, poiché un giudizio durissimo sarà fatto a quelli che comandano [] Infatti Dio non risparmierà la persona di alcuno, né avrà timore della grandezza di chicchessia, giacché il piccolo e il grande sono opera sua ed egli ha ugualmente cura di tutti. Ai più forti è riservato un tormento più forte» (Sap 6,4-8).

Se questi precetti tutelano la cosa pubblica, vengono eliminati tutti i motivi e i desideri di sedizioni; saranno posti al sicuro l’onore e l’incolumità dei Principi, la quiete e la salute delle città. Si provvede ottimamente anche alla dignità dei cittadini, ai quali nell’obbedienza stessa è dato conservare quel decoro che è consentaneo al grado dell’uomo. Infatti essi comprendono che innanzi al giudizio di Dio non esiste né lo schiavo, né il libero, e che il Signore è uno solo per tutti, ricco «verso tutti quelli che lo invocano» (Rm 10,12), e che quindi essi sono soggetti ed obbediscono ai Principi, perché questi portano in certo modo l’immagine di Dio, “servendo il quale si regna”.

La Chiesa poi ai adoperò sempre affinché questa forma cristiana della civile potestà non solo entrasse nelle menti, ma anche fosse espressa nella vita pubblica e nei costumi dei popoli. Finché al governo della cosa pubblica sedettero gl’Imperatori pagani, i quali erano impediti dalla superstizione di elevarsi a questa forma d’Impero che abbiamo delineato, la Chiesa cercò d’instillarla nelle menti dei popoli, i quali appena ricevevano le istituzioni cristiane dovevano tosto informare ad esse la loro vita. Perciò i pastori delle anime, rinnovando gli esempi dell’Apostolo Paolo, con somma cura e diligenza usarono comandare ai popoli «di essere sottomessi e di obbedire ai magistrati e alle autorità» (Tt 3,1), e similmente di pregare Dio per tutti gli uomini, ma specialmente «per i Re, e per tutti coloro che stanno al potere: questa è una cosa gradita al cospetto di Dio, nostro Salvatore» (Rm 2,1-3). A questo proposito gli antichi cristiani ci lasciarono chiarissimi documenti. Essi, sebbene fossero ingiustamente e crudelissimamente perseguitati dagli Imperatori pagani, tuttavia non cessarono mai di essere loro obbedienti e sottomessi, in modo che sembravano gareggiare gli uni in crudeltà, gli altri in ossequio. Questa modestia degli antichi cristiani, questa certa volontà di obbedire era talmente nota, che non poteva essere messa in dubbio da nessuna calunnia e malizia dei nemici. Per la qual cosa, coloro che pubblicamente dovevano perorare presso gl’Imperatori in favore del nome cristiano, adoperavano specialmente questo argomento per dimostrare essere ingiusto che le leggi perseguitassero i cristiani, i quali, come tutti sapevano, vivevano nella scrupolosa osservanza delle leggi. Così Atenagora coraggiosamente diceva a Marco Aurelio Antonino ed a suo figlio Lucio Aurelio Commodo: «Voi lasciate che noi, che non facciamo nulla di male, anzi [] ci comportiamo più piamente e più giustamente di ogni altro, sia verso Dio, sia verso il vostro Impero, siamo perseguitati, spogliati, scacciati». Parimenti Tertulliano lodava apertamente i cristiani come i migliori e più sicuri amici dell’Impero: «Il Cristiano non è nemico di alcuno, neanche dell’Imperatore, che sa essere stato costituito dal suo Dio: quindi è necessario che lo ami, lo riverisca, lo onori e lo voglia salvo, con tutto il Romano Impero». Né si faceva scrupolo di affermare che entro i confini dell’Impero tanto più scemava il numero dei nemici, quanto più cresceva quello dei cristiani. «Ora avete pochi nemici dato il grande numero di cristiani; infatti avete quasi tutti cittadini cristiani in quasi tutte le città». Della stessa cosa si ha anche una preclara testimonianza nella Epistola a Diogneto, la quale conferma che i cristiani in quel tempo non solo erano soliti obbedire alle leggi, ma in ogni specie di dovere facevano più e con più perfezione di quanto dalle leggi stesse erano obbligati. «I cristiani obbediscono alle leggi che sono sancite, e col loro genere di vita superano le stesse leggi».

Diversamente però andavano le cose quando dagli editti degl’Imperatori e dei Pretori veniva loro minacciosamente imposto di apostatare dalla fede cristiana o di mancare in qualsiasi altro modo al loro dovere. In tali casi essi vollero certamente piuttosto dispiacere agli uomini che a Dio.

Ma anche in queste circostanze era tanto lontana da loro l’idea di fare alcunché di sedizioso o di disprezzare la maestà Imperiale, che si limitavano ad una sola cosa, cioè a confessare di essere cristiani e di non volere in alcun modo tradire la loro fede. Del resto non macchinavano alcuna resistenza, ma placidamente ed allegramente si portavano al cavalletto del carnefice in modo che la grandezza dei tormenti era inferiore alla grandezza del loro animo. Né diversamente in quegli stessi tempi la forza delle dottrine cristiane fu efficace nella milizia. Infatti era costume del soldato cristiano di accoppiare una somma fortezza con un sommo amore della disciplina militare, ed aggiungere all’altezza del coraggio una fedeltà incrollabile verso il Principe. Per contro, se si pretendeva da lui qualche cosa che non fosse onesta, come violare i diritti di Dio, o rivolgere il ferro contro gl’innocenti discepoli di Cristo, allora egli rifiutava di eseguire l’ordine e preferiva abbandonare la milizia e morire per la religione, piuttosto che resistere con sedizioni e tumulti alla pubblica autorità.

Dopo che gli Stati ebbero Principi cristiani, la Chiesa insistette maggiormente nell’affermare e nel predicare quanto fosse inviolabile l’autorità dei governanti; dal che doveva avvenire che ai popoli, quando pensavano al Principato, veniva alla mente una specie di maestà sacra che li spingeva a nutrire verso i Principi maggiore riverenza ed amore. E perciò sapientemente provvide, affinché i Re fossero solennemente consacrati, come per comando di Dio era stabilito nell’Antico Testamento.

Quando poi la società civile, come suscitata dalle rovine dell’Impero romano, risorse alla speranza della cristiana grandezza, i Pontefici Romani, istituito il sacro Impero, consacrarono in modo singolare il potere politico. Una nobiltà grandissima si aggiunse con ciò al Principato; né è da porsi in dubbio che questa pratica avrebbe sempre grandemente giovato alla società religiosa e civile se i Principi ed i popoli avessero sempre avuto mire uniformi a quelle della Chiesa. E infatti le cose rimasero tranquille ed abbastanza prospere, finché fra i due poteri durò una concorde amicizia. Se i popoli, tumultuando, peccavano, la Chiesa, pronta conciliatrice di tranquillità, richiamava tutti al dovere, e frenava le violente cupidigie, in parte con la dolcezza, in parte con l’autorità. Similmente, se nel governo peccavano i Principi, allora essa andava dinanzi ai medesimi, e ricordando loro i diritti, le necessità, i giusti desideri dei popoli, li persuadeva alla equità, alla clemenza, alla benignità. In tal modo, spesse volte furono rimossi i pericoli di tumulti e di guerre civili.

Al contrario, le dottrine inventate dai moderni circa la potestà politica recano già grandi calamità agli uomini, ed è da temere che apportino per l’avvenire mali estremi. Infatti, il non volere che il diritto di comandare derivi da Dio, altro non è che volere strappare dal potere politico il migliore splendore e privarlo delle sue forze maggiori. Quando poi lo fanno dipendere dall’arbitrio della moltitudine, asseriscono in primo luogo una fallace opinione, e in secondo luogo pongono il Principato su un fondamento troppo leggero ed instabile. Conseguentemente, le passioni popolari, aizzate e stimolate da siffatte opinioni, insorgeranno più audacemente, e con grande rovina per la cosa pubblica trascenderanno in ciechi tumulti ed aperte sedizioni. Infatti, dopo la cosiddetta Riforma, i cui promotori e capi combatterono radicalmente con nuove dottrine la potestà sacra e civile, repentini tumulti ed audacissime ribellioni seguirono specialmente in Germania, e ciò con tanta deflagrazione di guerra civile e con tanta strage, che pareva non ci fosse alcun luogo immune da tumulti insanguinati. Da quella eresia ebbero origine nel secolo passato la falsa filosofia, quel diritto che chiamano nuovo, la sovranità popolare e quella trasmodante licenza che moltissimi ritengono la sola libertà. Da ciò si è arrivati alle finitime pesti che sono il Comunismo, il Socialismo, il Nichilismo, orrendi mali e quasi sterminio della società civile. Eppure molti si sforzano grandemente di diffondere la violenza di tanti mali, e con il pretesto di alleviare la moltitudine suscitano grandi incendi e rovine. Queste cose che ora ricordiamo non sono né ignote né molto lontane.

Quello, poi, che è anche più grave, è dato dal fatto che i Principi non hanno rimedi efficaci, in mezzo a tanti pericoli, per ristabilire la pubblica disciplina e per pacificare gli animi. Si muniscono dell’autorità delle leggi e credono di potere con la severità delle pene, contenere coloro che turbano l’ordine pubblico. Sta bene, tuttavia è necessario considerare seriamente che nessuna pena sarà mai sufficiente per potere, essa sola, conservare gli Stati. Infatti, il timore, come lucidamente insegna San Tommaso, «è debole fondamento, poiché coloro che sono sottomessi per timore, se si presenta un’occasione nella quale possono sperare l’impunità, insorgono contro i capi tanto più aspramente quanto più erano tenuti a freno controvoglia dal solo timore». Inoltre, «a causa dell’eccessivo timore molti cadono nella disperazione, e la disperazione spinge a tutti i più temerari attentati». Quanto ciò sia vero, abbiamo sufficientemente provato con l’esperienza. Pertanto è necessario trovare una più alta ed efficace ragione di obbedire e stabilire assolutamente che non può essere fruttuosa la stessa severità delle leggi, se gli uomini non sono spinti dal dovere e mossi dal timore salutare di Dio. Ciò poi può essere soprattutto ottenuto dalla religione, la quale con la sua forza influisce sugli animi, e piega le stesse volontà degli uomini affinché obbediscano ai reggitori non soltanto con l’ossequio, ma altresì con la benevolenza e con la carità, che sono in ogni società umana la migliore custode della incolumità.

Per la qual cosa è da ritenere che i Romani Pontefici abbiano ottimamente provveduto ai comuni vantaggi, perché continuamente si preoccuparono di abbattere i superbi ed irrequieti spiriti dei Novatori, e spessissimo ammonirono quanto questi siano pericolosi anche alla società civile. A questo proposito è degno di essere ricordato il pensiero di Clemente VII espresso a Ferdinando Re di Boemia e di Ungheria: «In questa causa della fede sono racchiuse anche la dignità e l’utilità tua e quella degli altri Principi, in quanto essa non può venire sradicata senza trascinare con sé la rovina delle cose vostre; il che chiarissimamente in alcuni codesti luoghi si è veduto». Nella stessa materia risplendettero la somma provvidenza e la fortezza dei Nostri Predecessori, specialmente di Clemente XI, Benedetto XIV, Leone XII, i quali – quando serpeggiava nei tempi successivi la peste delle prave dottrine, e l’arroganza delle sette andava crescendo – si adoperarono con la loro autorità a chiudere loro l’accesso. Noi stessi abbiamo parecchie volte denunciato quanti gravi pericoli sovrastino, e nel tempo stesso abbiamo indicato quale sia la maniera migliore per allontanarli. Ai Principi ed agli altri reggitori della cosa pubblica offrimmo il presidio della religione, ed esortammo i popoli a servirsi abbondantemente della larghezza dei sommi beni forniti dalla Chiesa. Ora Noi cerchiamo che i Principi intendano l’importanza e la necessità di questo presidio, loro nuovamente offerto, e del quale nessuno è più valido; caldamente li esortiamo nel Signore affinché tutelino la religione e, ciò che interessa anche allo Stato, lascino che la Chiesa goda di quella libertà di cui senza ingiuria e senza comune detrimento non può essere privata. La Chiesa di Cristo non può certamente essere né sospetta ai Principi, né invisa ai popoli. Essa invita i Principi a seguire la giustizia, e a non deviare giammai dal dovere, ma nello stesso tempo rafforza, e con molti mezzi aiuta, la loro autorità. Essa riconosce le cose che si riferiscono all’ordine civile, e dichiara che appartengono alla potestà e al supremo imperio dello stesso. Nelle cose il cui giudizio, sebbene per diversa ragione, appartiene alla sacra ed alla civile potestà, la Chiesa vuole che esista fra ambedue la concordia, mercé la quale si evitino all’una ed all’altra funesti dissidii. Per ciò che riguarda i popoli, la Chiesa è nata per la salute di tutti gli uomini: essa li amò sempre come una madre.

È essa, certamente, che con la sua carità infuse negli animi la mansuetudine, la mitezza dei costumi, l’equità delle leggi; giammai nemica della onesta libertà, detestò sempre il dominio della tirannia. Sant’Agostino espresse chiarissimamente con poche parole tale benemerita condotta propria della Chiesa: «Essa insegna che i Re debbono provvedere ai popoli, e che tutti i popoli debbono essere soggetti ai Re, dimostrando in un certo qual modo che tutto non può essere dato a tutti, ma che a tutti è dovuta la carità e a nessuno l’ingiuria».

Per queste ragioni, Venerabili Fratelli, l’opera vostra sarà molto utile e certamente salutare, se porrete con Noi il vostro impegno e tutti i mezzi che, con la grazia di Dio, sono in vostro potere per scongiurare pericoli e danni alla società umana.

Procurate e provvedete, affinché tutte quelle cose che sono insegnate dalla Chiesa cattolica circa la potestà e il dovere di obbedire, siano a tutti presenti e diligentemente praticate nella vita. Dalla vostra autorità e dal vostro magistero i popoli siano spesso ammoniti a fuggire le sette proibite, a detestare le congiure ed a schivare qualsiasi sedizione; essi intendano che l’obbedienza di coloro i quali, in ossequio a Dio, obbediscono ai Principi, è generosa obbedienza ed “ossequio ragionevole”. Poiché però è Dio «che dà la salute ai Re» (Sal 144,11) e concede ai popoli di vivere «nella bellezza della pace, nei tabernacoli della fiducia e nel riposo opulento» (Is 32,18), è necessario pregare e supplicare Lui, affinché pieghi le menti di tutti alla onestà ed alla verità, plachi le ire, e restituisca alla terra la tanto sospirata pace e la tranquillità.

Perché poi più ferma sia la speranza di impetrare ciò, adoperiamo l’intercessione e la salutare difesa di Maria Vergine gran Madre di Dio, aiuto dei cristiani, tutela del genere umano; di San Giuseppe, suo castissimo Sposo, sul cui patrocinio moltissimo confida la Chiesa universale; di Pietro e Paolo, Principi degli Apostoli, custodi e vindici del nome cristiano.

Frattanto, auspice dei doni divini, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero ed al popolo affidato alle vostre cure, impartiamo affettuosissimamente nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno 1881, anno quarto del Nostro Pontificato.»

 

LEONE PP. XIII