Il veloce precipitare degli odierni eventi “storici” che stanno coinvolgendo tanto la Chiesa Cattolica quanto la sfera politico-sociale mondiale, e di cui noi siamo testimoni come Christi fideles, risulta altresì proporzionato ad un palpabile senso di sempre più diffusa impotenza.
Le grida di smarrimento elevate tramite pubbliche denunce, petizioni, appelli, manifestazioni e quant’altro, si rivelano infatti insufficienti a fermare quella spirale di confusione che, come si paventa, si è innescata in maniera ormai irreversibile sia in ambito clericale che laico; a tal punto che la particolare gravità delle situazioni in atto è da più parti letta come sintomatica di un passaggio epocale dalle forti connotazioni escatologiche.
Se ciò non vuol significare la certezza della imminente Parousia – non è dato a noi, infatti, il poterne prevedere i tempi né tantomeno stabilirli[1] – si può tuttavia a ragione presumere che la presente contingenza “storica” stia costituendo, tanto per la fede cattolica nelle sue componenti laiche e clericali quanto per l’intera umanità stessa, una prova che in ogni caso influenzerà profondamente gli aspetti e le direzioni ontologiche che ne caratterizzeranno l’immediato futuro.
Fatta salva l’imponderabilità del Mistero messianico e dei tempi che ci separano dal pieno compimento del Regnum Christi sulla terra, sappiamo tuttavia che la nostra attesa non deve essere inoperosa, in quanto a noi è dato di poter perlomeno “affrettare la venuta del giorno di Dio”[2].
In siffatto frangente, come in varie occasioni già da noi riaffermato[3], la nostra convinzione rimane una volta di più che i fenomeni “storici” non possano esser letti e compresi senza averli contestualmente posti in relazione con i divini Principi “metastorici”, i quali, sempre e comunque, archetipicamente li informano. Allorché le contingenze “storiche” risultino ormai talmente compromesse, tanto da inibire e rendere insufficiente qualunque tipo di decisione o di iniziativa puramente “orizzontale”, è proprio allora che conviene “verticalmente” rivolgersi a siffatti Principi, per trarne “consiglio” e guadagnare quella migliore intonazione che permetta il più giusto temperamento al nostro gioioso annuncio, alla nostra invocazione piena di speranza: “Maranà tha”[4].
Da un punto di vista escatologico, l’attesa della Parousìa risulta immediatamente inaugurata già nel momento dell’Ascensione al Cielo del Signore Gesù. Nonostante rimanga inconoscibile il momento storico del realizzarsi completo del tempo dell’Ultimo Giorno (il Giorno del Signore) esso mantiene sempre e comunque il carattere dell’“imminenza”[5].
Il mandato rilasciato dal Signore Gesù, in occasione dell’Ascensione, è poi chiaro ed esplicito: l’Ecclesia deve informare il continuo presente “storico”, nell’attesa escatologica, con l’insonne “vigilanza”[6]. Oltretutto, il tempo presente, tempo dello Spirito e della testimonianza, ha di già inaugurato anche i “combattimenti” degli ultimi tempi[7].
In definitiva: l’imminenza della Parousìa, pur temporalmente indeterminabile, implica per noi la necessità di incessanti “vigilanza e combattimento”; ed entrambe queste azioni sono evidentemente di massima pertinenza di quella che è la componente “miliziana” della Regalitas Imperiale: la Cavalleria. Infatti, nell’azione del “vigilare” rientra il compito di “conservare e proteggere la Tradizione”, mentre nell’azione del “combattere” per la Verità del Cristo, contro la menzogna dell’anticristo, si riconosce la peculiarità dell’azione propriamente di militia con la quale la Cavalleria deve “difendere e mantenere integra la Tradizione”[8]. E qui, val bene precisarlo, per Tradizione si vuole propriamente significare, in senso lato, tutto ciò che ab initio stabilisce e mantiene il Creato in quell’Ordine disposto dal Logos, suo Creatore.
La Tradizione è insomma la Legge per antonomasia: ecco dunque perché le funzioni proprie della Regalitas sono quelle di riconoscere e mantenere lo stato dello ius naturale attraverso l’esercizio della Iustitia, che è “vigilanza” sull’osservanza della Lex e “combattimento” contro ciò che non la rispetti o tenda addirittura a sovvertirla.
Lo scopo di tali azioni è quello di “approntare”, ossia di “render pronta” l’Ecclesia (che non può che essere intesa, dunque, quale l’insieme complementare e sinergico di Papato ed Impero, ovvero di Sacerdotium e di Regalitas) al ritorno del Re dei Re, predisponendola all’accoglienza di quei nuovi cieli e di quella terra nuova nei quali la Iustitia di Dio ha la sua stabile dimora[9]. Questa è la consegna, ovvero la “chiamata” data dal Cristo Gesù alla Regalitas Imperiale, in quanto Istituto che deve improntare il “temporale” secondo le direttive “spirituali” del Sacerdotium; questo è propriamente il suo Ufficio, i talenti ad Essa consegnati e da Essa da riconsegnare, moltiplicati, nell’Ultimo giorno[10].
Da questo punto di vista, “vigilanza e combattimento” costituiscono nel loro insieme il sinonimo del perseguimento dell’archetipica Iustitia Regale, del “disporsi conforme” dell’Ufficio della Regalitas Imperiale con la Iustitia del Regno di Dio, in vista del compimento del “Giudizio” finale[11]. Il compito di instaurare la Iustitia in terra, in maniera tale che questa risulti “approntata”, ossia “pronta” ad accogliere la Iustitia del Cielo (alla maniera della “preparazione” mostrata dalle cinque vergini sagge della parabola evangelica in Mt 25,1-13), essendone divenuta “conforme”, rappresenta la principale prerogativa della Regalitas Imperiale in obbedienza al comando del Signore: “Estote parati!”[12].
Che tale esser “pronti” corrisponda poi ad un esser “conformi”, lo mostra il fatto che il lat. promptus significa “manifesto, visibile, palese, evidente” oltre che “disposto, propenso”. Colui che è “pronto”, insomma, è colui che si è reso “disposto e propenso” ad operare attraverso la “conformità” della Iustitia terrena. Ma conformità con che cosa? Appunto: la sua conformità con la Parousìa, ossia con la nuova manifestazione visibile del Logos, col Suo secondo palesarsi evidente nel mondo, nella veste di Iustitia finale ed eterna[13].
Il tempo della Parousìa non va semplicemente immaginato come riferibile ad un indeterminato e del tutto relativo futuro momento storico (il giorno e l’ora), ma come ontologicamente contestuale a quel momento in cui “vigilanza e combattimento” siano ormai finalmente pervenuti ad un “punto qualitativo” tale che, per “giusto merito” (dal lat. mereo, “attrarre la propria parte, essere degno”), venga annullata l’“imminenza” che separa la Giustizia terrena dalla Parousìa stessa, ritrovandosi così l’una oramai “pronta e conforme” per venir connessa con l’altra; e ciò, avendo quella risposto pienamente alla chiamata di questa, ed essendosi per ciò collocata in piena conformità con Essa[14].
Con un’immagine simbolico-matematica potremmo esprimere suddetto “punto qualitativo” quale quello ontologicamente collocato all’infinito, in cui si vadano ad incontrare due rette parallele[15]. Il raggiungimento di tale “punto qualitativo”, insomma, non prescinde affatto dal quantitativo tempo storico, semmai lo “trascende”.
Per dirla con altre parole, ciò non vuole significare che “la fine del mondo” non sia un avvenimento futuro riconducibile cronologicamente ad un momento della storia, oppure, all’inverso, che sia semplicemente “il presente rappresentato con le categorie del futuro”, come afferma una cattiva teologia. Piuttosto, il “Giorno del Signore” consiste sì un momento di là da venire, eppure Esso, nel momento in cui si realizzerà, si rivelerà contestualmente “come già venuto”, sancendo pertanto il superamento del tempo storico. Tale sfumatura è in certo qual modo implicita nel significato che è proprio del termine Parousìa (dal gr. παρα + ειμί: “essere presso”), il quale traduce propriamente “presenza”. Se dunque il Re è effettivamente e comunque già sempre presente “in mezzo a noi” (δια)[16] sin dall’Ascensione, tuttavia la Sua presenza rimane ancora da essere manifestamente “svelata” come pienamente “presso noi” (παρα) in quanto “Gloria”. E la Gloria non significa altro, appunto, se non l’“irradiazione della manifestata presenza di Dio”.
A tal proposito è significativo che il termine parousìa fosse anticamente adoperato per indicare il momento della “visita” compiuta dall’Imperatore romano in una sua provincia. Infatti, seppur egli non fosse ancora visibilmente e solennemente giunto in quel luogo, la sua signoria Regale in quella provincia, precedentemente cioè alla propria parousìa, era comunque effettivamente già presente ed in atto. Egli era insomma il vero centro dell’Impero, a prescindere dal luogo in cui si trovava.
Per quel che ci riguarda, ciò permette finalmente di intuire in modo chiaro che qui si è al cospetto di due differenti e sovrapponibili livelli di “presenza” del Logos, e quindi di “presente temporale”: il presente del tempo storico e quello del tempo escatologico; ma è necessario il non pensarli come appartenenti ad un medesimo stato ontologico, cioè a dire posti in una medesima successione lineare e quantitativa della temporalità!
In quanto si usa associare l’esercizio dell’Ufficio del Potere Regale al cosiddetto dominio “temporale”, distinguendolo da quello “spirituale”, dovremmo allora tener conto dell’anzidetta specificazione: la “temporalità” della Regalitas Imperiale, in virtù della sua sacralità, è in definitiva pertinente sia ad un presente storico che ad uno escatologico.
Quantunque possa risultare arduo ricollocarsi secondo prospettive siffatte – per noi cattolici che, purtroppo, da troppo tempo ci siamo ormai disabituati a guardare la “storia” che viviamo, ed anzi a vivere la nostra stessa “fede”, alla consapevole luce di quei “segni e simboli” celesti che ricamano in filigrana la realtà terrena – il tempo odierno di crisi e confusione può rappresentare un’opportunità che ci viene provvidenzialmente offerta: ossia quella di “rinnovarci”, ancora una volta eppur con inedita maggior incisività rispetto ad altri tempi storici precedenti, secondo l’incessante richiamo alla purificazione ed alla conversione già avviato col nostro Battesimo.
Non stiamo di certo alludendo alla malsana ed erronea ricerca del relativistico “nuovo”, che tanto affligge l’odierna Chiesa modernista e mondanizzata, quanto piuttosto alla continua e “rinnovante ricapitolazione”[17] che veramente santifica l’Ecclesia Christi nella storia, rendendola sempre “nuova” nell’eterno della metastoria.
La Regalitas è archetipo divino che riconosce la propria identità di funzione nel Cristo Signore in quanto Rex et Sacerdos secondo l’Ordine di Melchisedec[18].
E’ un fatto che sia proprio tale funzione archetipica e metastorica, storicamente incarnatasi nel Sacrum Romanum Imperium, a rivestire una particolare significatività all’interno del mistero escatologico, dato che il Cristo vincitore si manifesterà alla fine dei tempi nell’aspetto proprio di un Cavaliere il cui nome è Re dei Re, Signore dei Signori[19].
E’ in tutto tale contesto, allora, che viene senz’altro ad inserirsi la figura ed il “Tempo” del Katechon.
All’interno del cammino escatologico dell’Ecclesia, per la prima volta da duemila anni a questa parte, la cristianità ha assunto oggi una posizione di estremo affievolimento, se non di azzeramento, di quella “vigilanza e combattimento” che avevano caratterizzato i secoli passati (con un apice soprattutto in corrispondenza dell’Età di Mezzo), decadendo da una visione teocentrica della realtà ad una sempre più antropocentrica. Con l’insorgere dell’Umanesimo e poi, via via a seguire, del Rinascimento, dello scisma protestante, del razionalismo, della nascita degli Stati nazionali, delle rivoluzioni massonico-illuministiche, del modernismo, etc., l’Ecclesia si è gradualmente orbata: la Chiesa clericale si è cioè resa vedova, mentre quella laicale si è resa orfana della Regalitas[20].
In altre parole, la cristianità si è predisposta verso la totale impreparazione all’accoglienza del ritorno del Re e dell’avvento definitivo della Sua Regale Signoria, ponendosi sempre più secondo una difformità rispetto alla Iustitia del Regno di Dio (alla maniera dell’“impreparazione” mostrata dalle cinque vergini stolte della parabola evangelica in Mt 25,1-13).
In tale frangente, con la caduta del Sacrum Romanum Imperium l’archetipo Regale si è ritirato nella latenza escatologica, ossia nello stato di non-manifestazione durante il presente storico! Da parte sua il Sacerdotium, incarnato nel Papato, si è contestualmente sempre più mondanizzato, fino a pervenire alla patologica anomalia – mai registratasi prima nella storia dell’Ecclesia – della compresenza sul Soglio Petrino di due Pontefici, entrambi riconosciuti come legittimamente tali.
L’Era moderna, quindi, perseguendo decisamente una predisposizione impreparata al Giudizio – perché attuata secondo una modalità capovolta, “sovvertita” o più esattamente di “non-predisposizione”, di “indisponibilità” – oggi si costituisce in verità quale un’“apostasia” (separazione, allontanamento, astensione, ribellione), ossia come un “allontanamento” dall’Ordine della Legge divina (la Tradizione) ed un contestuale decadimento verso il Chaos.
Con “apostasia” deve pertanto intendersi il “rifiuto a conformarsi”; ed è scritto che essa debba attuarsi, di necessità, nel tempo storico che preannuncia l’escatologico “svelamento finale”: allorché “sarà tolto di mezzo” il Katechon che si oppone all’“uomo iniquo”, ovvero all’anticristo[21].
Legittima appare dunque la domanda del Signore: «Ma Dio non farà giustizia (εκδικησιν) ai suoi eletti (εκλεκτων) che gridano (βοωντων) giorno e notte verso di lui, e sarà longanime con essi? Vi dico che darà loro prontamente soddisfazione. Ciononostante, quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»[22].
Gli “eletti che pregano giorno e notte” pronunciando il Maranà thà, il “Vieni Signore Gesù”, sono i “giusti”; ossia coloro che, liberamente ed instancabilmente, manifestano in tal modo la propria pronta disponibilità a conformare, attraverso la Regalitas Imperiale, la Iustitia terrena con la Iustitia di Dio, affinché quella riceva da questa la propria “giustificazione”.
I “chiamati”, coloro che costituisco l’Ecclesia (da εκ-καλεω, “chiamare”), sono quegli “eletti dal Logos” (= εκλεκτων) che, non avendo apostatato, possiederanno ancora la fede per “elevare grida di guerra” (= βοωντων)[23], affinché “ritorni” Giustizia[24].
Il nuovo risvegliarsi dalla latenza della Regalitas Imperiale comincia pertanto col suo rinnovare al Logos la propria pronta disponibilità a “conformarsi”, facendosi inoltre carico di riorganizzare il “piccolo resto fedele”[25]: quella “reliquia” dell’Ecclesia che, non avendo apostatato, è chiamata ad accogliere con “integrità” la Parousìa, vigilando e combattendo. Ed è chiaro che “accogliere con integrità”, equivale già di per sé ad “integrarsi”.
In quanto così intimamente implicata nella questione, nonché sollecitata a reagire al rifiuto a conformarsi con la Iustitia di Dio operato da quella parte di Ecclesia che risulta soggiogata dall’apostasia, è dunque alla Regalitas Imperiale che compete la funzione di Katechon.
Riprendendo il passo paolino di 2Ts 2,3-7, notoriamente caposaldo di tutte le argomentazioni escatologiche, leggiamo: «Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia (ἀποστασία) e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione (τῆς ἀπωλείας), colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce (τὸ κατέχον) la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità (τῆς ἀνομίας) è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo (ἐκ μέσου) chi finora lo trattiene (ὁ κατέχων)».
Nel corso del tempo, innumerevoli e varie sono state le proposte esegetiche volte ad interpretare tale enigmatico passo, nonché a comprendere, in special modo, a chi e a che cosa debba venir riferito quel termine Katechon. Tuttavia, tra di esse, la spiegazione tradizionalmente più accolta da tutti i Padri, Latini e Greci, è stata certamente quella secondo cui τὸ κατέχον indica una forza, un potere: l’ “Impero Romano”; la qual cosa si concretizza allo stesso tempo in una persona: ὁ κατέχων, l’“Imperatore”.
Mentre S. Leone Magno[26] e S. Tommaso[27] proclamavano la “sacralità” di Roma, da parte loro Tertulliano[28], Giovanni Crisostomo[29], Giovanni Damasceno[30], Lattanzio[31], S. Cirillo Gerosolomitano[32], S. Girolamo[33], S. Ambrogio[34], S. Agostino[35], S. Beda il Venerabile[36] (e molti altri) tutti concordavano nell’indicare l’Impero Romano come “ciò che impedisce, trattiene, frena, contiene, regge” il manifestarsi dell’anticristo. Ebbene, alla luce di ciò, rimane allora indubitabile come sia il Sacrum Romanum Imperium a dover essere riconosciuto quale Katechon nella sua più propria identità ontologica, avendo esso raccolto, appunto, la sostanziale eredità dell’antico Imperium latino, dopo averlo cristianizzato.
Oltre a ciò, il fatto che tale funzione risulti di effettiva ed esclusiva pertinenza della Potestas Regale lo attesta chiaramente la natura di ciò a cui essa funzione si oppone: intendiamo quel “mistero di iniquità” a cui si allude nel passo succitato della Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Il testo greco rende infatti il significato di “iniquità” con ανομια, come abbiamo già visto; ma pure con αδικια, come compare in un successivo versetto del medesimo capitolo[37]. Orbene, se il primo termine (anomia) traduce letteralmente “senza legge”, il secondo (adikia) significa “senza giustizia, senza equità”.
L’iniquitas di cui in questione, la “mancanza di equità”, si costituisce pertanto come l’esatta inversione dell’Imperium, la cui peculiare prerogativa è appunto quella di emanare la Lex ed amministrare l’equità della Iustitia. La funzione Regale, in analogia con la sapienziale funzione ordinatrice del Creatore, è in definitiva quanto concorre al mantenimento dell’ordinata ed equilibrata (equa) disposizione del Mondo. Il suo venir meno al proprio ruolo di “medianità equale” tra il temporale e lo spirituale dell’uomo (laddove il Sacerdotium media tra la parte spirituale dell’uomo e Dio), il suo esser “tolto dal mezzo”, l’esser “allontanato” (apostasìa) dalla propria posizione “mediatrice”, è ciò che causa la venuta del “figlio della perdizione”, ossia l’anticristo: “figlio” in quanto conseguenza dell’“abolizione” dell’Impero[38] e quindi della distruzione e perdita dell’ordinamento, che è a sua volta causa di rovina in quanto caduta al di fuori dello ius rectum stabilito dal Rex. L’apostasìa (dal verbo gr. ἀφίστημι, “allontanare, disgiungere, rimuovere, far sparire”), che si dice debba di necessità precedere la venuta dell’anticristo, significa per l’appunto l’“allontanamento”, la sparizione dell’Impero dalla sua funzione di Katechon.
Alcune riflessioni finali.
Nell’imminenza di una “svolta” escatologica, a cui la presente contingenza storica sembrerebbe condurci, accogliamo con favore e soddisfazione la recente rinnovata attenzione operata da più parti attorno alla figura del Katechon: attenzione che appare indubbiamente quanto mai attuale e necessaria.
Tuttavia, soprattutto alla luce di quanto sopra delineato, andrebbero fatte altresì alcune precisazioni. Assodato che la funzione “katechetica” rimane di pertinenza della componente “temporale” dell’Ecclesia, allo stato attuale non pare esserci alcuna realtà politico-sociale che possa assolvere a tale ruolo svolgendo le veci della Regalitas Imperiale; e ciò fondamentalmente per due ragioni che attengono rispettivamente al “chi” ed al “che cosa”.
La prima è che la persona atta a svolgere tale funzione non può che essere un “consacrato”, un individuo cioè che abbia ricevuto dal Sacerdotium quel riconoscimento sacramentale che avalli il possesso da parte sua del carisma regale[39].
La seconda è che l’Istituto deputato a svolgere la suddetta funzione “temporale” non può venir confuso con una qualunque semplice Monarchia; né tantomeno con una qualunque altra forma di governo tra quelle oggi attuate, stante l’abiura dello ius naturale da esse perpetrata, il che le rende in verità ontologicamente illegittime.
L’Imperium, almeno fino al momento storico in cui esso ha mantenuto sino in fondo la purezza del proprio status ontologico, si è difatti sempre distinto per rappresentare un “potere sovranazionale”. La sua essenza gerarchica, dottrinalmente delineata in maniera tale che l’Imperatore si pone sulla terra secondo un’analogica immagine di quel che Dio è per l’Universo, si riferisce insomma alla reductio multitudinis ad unitatem, ad un’unità “universale” che trascende, senza pur tuttavia annullare, la pluralità.
Proprio alla luce dell’odierna totale disgregazione in atto tanto in ambito politico-sociale quanto ecclesiale, risulta opportuno ricordare che tale concezione “unitaria, sintetica e universale”, propria della Regalitas Imperiale, prima ancora di costituire un’aspirazione materiale e storica si presenta piuttosto quale un metastorico Principio d’Ordine, rivestito di una natura e di una necessità spirituali. Essa è difatti l’unico Istituto a poter contrastare il ribaltamento e la sovversione che si intende operare allorché si tenta di “contraffare” l’Universalità col globalismo, che è come dire la qualità con la quantità; operazione, questa, che è sintomatica del tentativo di instaurazione del “nuovo ordine mondiale”.
La renovatio Imperii è dunque un obiettivo che andrebbe perseguito, “a prescindere” dalla sua, apparentemente improbabile, imminente realistica attuabilità.
L’individuo non può incidere sui Principi “metastorici” influenzandone la manifestazione storica, ma può comunque liberamente scegliere se “storicamente” aderirvi o meno: nella fattispecie, egli può aderire o meno alla realtà del Katechon.
Così facendo, se certamente egli non allontanerà l’anticristo, la cui venuta nel tempo storico rimane escatologicamente inevitabile, nondimeno “affretterà” la venuta del Tempo metastorico del Regno di Cristo ed il compimento della Giustizia. E testimoniando in tal modo la propria “purezza”, il proprio essere “giusto” e “conforme”, egli sarà “giustificato”: ossia “pronto” per essere “ricapitolato nel Cristo Giudice”.
Ai Christi fideles spetta oggi dunque il dovere di porsi dalla parte del Katechon, rendendosi disponibili a conformarsi con la provvidenzialità metastorica. Viceversa, se decidessero di rinunciarvi, sceglierebbero di sottostare fatalisticamente al corso della storia e dell’anticristo, ponendosi nella schiera di coloro i quali saranno condannati perché «…non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità (αδικια)» (2 Ts, 2,12).
“O SS. Vergine Maria, rinunciamo a noi stessi per donarci a Te, nostra cara Madre”
Il presente scritto è stato pubblicato sul seguente blog:
www.ilpensierocattolico.it (26.11.20);
e in una versione ridotta, con il titolo di “Imperium e Katechon“, nei blog:
www.marcotosatti.com (24.11.20)
www.maurizioblondet.it (25.11.20)
[1] Cfr. At 1,7.
[2] Cfr. 2 Pt 3,11-12.
[3] Cfr. “La perdita della Regalità”, in https://www.maurizioblondet.it/la-perdita-della-regalita-come-causa-della-mondanizzazione-del-corpo-ecclesiale/ (23.08.20);
“La Chiesa vedova”, in https://www.marcotosatti.com/2020/09/02/la-chiesa-vedova-perdita-di-regalita-clero-mondanizzato/ (02.09.20);
idem in https://www.ilpensierocattolico.it/index.php?/entry/321-la-chiesa-%E2%80%9Cvedova%E2%80%9D-la-perdita-della-regalitas-come-causa-della-mondanizzazione-del-corpo-ecclesiale/ (28.09.20).
[4] 1 Cor 16,22; cfr. Ap 22,20.
[5] Cfr. 1 Ts 4,16.
[6] Cfr. Mt 25,1-13; Mc 13,33-37.
[7] Cfr. 1 Gv 2,18 e 4,3; 1 Tm 4,1.
[8] «Portio mea Dominus dixi custodire legem tuam» (Sal CXVIII, 57), ossia: “Io elessi come mia porzione, Signore, di custodire/difendere/proteggere la tua legge”. Qui, con portio, si intende letteralmente la “propria parte nel rapporto”. Ancor più esplicita e completa è la versione in greco dei LXX, la quale adopera il sostantivo μερις; infatti, oltre al senso suddetto, esso emblematicamente detiene anche quello di “fazione, classe politico-sociale”.
[9] Cfr. Is 65,17; 2Pt 3,13; Ap 21,1.
[10] Cfr. Mt 25,14-30.
[11] Cfr. Rm 8,29-30.
[12] Cfr. Mt 24,44; Lc 12,40.
[13] «Giudicami, Signore, secondo la mia giustizia» (Sal VII, 9).
[14] «Convertitevi a lui con tutto il cuore e con tutta l’anima, per fare la giustizia davanti a lui; e allora Egli si convertirà a voi e non vi nasconderà il Suo volto» (Tb 13,6); «Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
[15] Per “retta” va intesa propriamente l’azione del rex.
[16] Cfr. Mt 18,20 e 28,20; Lc 17,21 e 22,27; Gv 1,14 e 1,26.
[17] Cfr. Ef 1,10.
[18] Cfr. Gen 14,18-20; Sal CIX,4; Eb 7,1-3.
[19] Cfr. Ap 19,11-16.
[20] Questo spiega peraltro, in senso analogico, perché la protezione della vedova e dell’orfano rappresenti una tra le principali missioni della Cavalleria.
[21] Cfr. 2 Ts 2,3-4.
[22] Lc 18,7-8.
[23] «Grida a piena voce, senza riguardo, fa risuonare la tua parola come una tromba; dichiara al mio popolo le sue Iniquità» (Is 58,1).
[24] «Beato chi hai scelto e chiamato vicino, abiterà nei tuoi atri…Con i prodigi della tua giustizia, tu ci rispondi, o Dio, nostra salvezza» (Sal LXIV, 5-6).
[25] Cfr. Rm 9,27; 11,1-10; Is 4,3; 10,10-22. Sul “piccolo resto” cfr. pure Is 11,11-16; 37,4-32; Ger 23,3-6; 31,7; 50,20; Ez 20,37; Mi 2,12-13; Sof 3,11-13; Zc 8,3-12.
[26] S. LEONE MAGNO, Sermo I in natali Apostolorum.
[27] S. TOMMASO, In 2.am ad Thessalonicenses, c. II, lect. 1.
[28] TERTULLIANO, Apologeticum, XXXII, 1.
[29] S. GIOVANNI CRISOSTOMO, Homilia IV in II ad Thessalonicenses, coll. 485-486.
[30] S. GIOVANNI DAMASCENO, La seconda ai Tessalonicesi, col. 923.
[31] LATTANZIO, Divinae institutiones, XXV, coll. 812-813.
[32] S. CIRILLO GEROSOLOMITANO, Katechesis XV, 12.
[33] S.GIROLAMO, Ad Algasia, 11.
[34] S. AMBROGIO, In Epistolam Beati Pauli ad Thessalonicenses secundam.
[35] S. AGOSTINO, De Civitate Dei, XX, 19, 3.
[36] S. BEDA IL VENERABILE, Expositio ad Thessalonicenses II.
[37] E’ significativo che, nel versetto qui menzionato, l’“iniquità” intesa come “mancanza di giustizia” venga posta in relazione con la mancanza di “verità”: «…e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità» (2Ts 2,12).
[38] Il termine che traduce ‘perdizione’, ἀπωλεία, deriva dal verbo ἀπόλλῦμι, che è a sua volta in relazione con il lat. aboleo, “abolire”.
[39] Abbiamo già in più occasioni ribadito, ma è bene ricordarlo, che la dignità regale è munus direttamente elargito da Dio, come affermato in diversi luoghi della Scrittura: cfr. Rm 13,1; Prov 8,15; Sap 6,1-3; Zc 4,1-14. Non è dunque competenza del Sacerdotium trasmetterla, perché tale dignità non gli appartiene. E’ necessario però che la Regalitas venga riconosciuta, avallata, legittimata, consacrata dal Sacerdotium.