La spada
Per l’uomo che ha il suo centro in Dio e Dio al centro del proprio cuore ogni azione è lode. È salmodia e preghiera, ed è liturgia poiché in essa si rivela una sapienza d’origine divina capace di accordare i ritmi di questo mondo e i palpiti del cuore umano sul ritmo eterno del cuore di Dio. In tal modo, nell’opera dell’uomo, agisce l’Amore che fece cielo e terra e, attraverso la creatura, l’amore di nuovo mostra il suo volto come potenza creatrice e trasfiguratrice. La creatura, per prima, subisce una trasformazione divina: Dio la investe di una dignità regale e sacerdotale, le dona un carisma che fa dell’uomo un pontefice ed un sacrificatore.
«Sacrificio» è essenzialmente la capacità di santificare gli spazi e i tempi, di rendere sacro il pensiero e l’azione riconoscendo in ogni cosa l’orma di una sapienza e di un amore che la trascende e che, allo stesso tempo, ne è l’ intima essenza.
Sacrificio è azione divinificatrice: il sacrificatore pronuncia sulle creature e le cose le parole di vita che le strappano al dominio del tempo e della morte. L’uomo in cui Dio vive è, per eccellenza, un sacrificatore. Non solo il sacerdote, ma ogni creatura redenta nell’amore. Così l’artefice che trasforma la materia infondendo in essa la scintilla dell’ispirazione. L’opera d’arte è materia santificata offerta, come simbolo vivente dello spirito, alla contemplazione in un’eucaristia di luce e di bellezza.
In tempi antichi non solo i templi e le icone, ma anche gli utensili avevano una loro dignità ed una loro «anima» in quanto concepiti non solo per servire al meglio delle loro possibilità nell’opera alla quale erano destinati, ma anche come frutto tangibile della sapienza e dell’amore di chi li aveva fabbricati infondendo in essi, in certo qual modo, una parte della propria anima. Quando chi produceva l’oggetto e chi l’usava erano entrambi coscienti del senso dell’opera alla quale l’oggetto era destinato quest’ultimo acquisiva valore sacrale poiché l’opera stessa cui doveva servire era sacra: che si trattasse della coltivazione di un campo o dello squadramento delle pietre, o che si trattasse della forgiatura di un oggetto destinato a servire in guerra come provvido e micidiale strumento di salvezza e di morte ed in pace quale simbolo d’uno stato interiore, contrassegno di una dignità spirituale e sociale, emblema di una vocazione: la spada del Cavaliere.
Entrambi, fabbro e Cavaliere, in due modi diversi, ma percorrendo sentieri illuminati dallo stesso sole, erano artefici. Ognuno secondo la propria natura e vocazione. Ed erano trasfiguratori della materia: della pietra minerale il primo, della pietra grezza della propria natura il secondo.
Entrambi avevano come scopo forgiare una spada. Il fabbro una lama da guerra. Il Cavaliere, attraverso la guerra, una lama chiara e diritta e forte della quale la spada era solo un simbolo: il proprio spirito, il proprio volere ed il proprio essere. Ed entrambi, fabbro e Cavaliere, affidavano l’opera loro nelle mani dell’Altissimo: che se ne servisse, il fabbro dei martelli , il Cavaliere della spada e Dio del fabbro e del Cavaliere, a maggior gloria del Suo nome.
Viviamo i n un’epoca in cui, persa la facoltà dell’intuizione simbolica, per comprendere il senso di culture fondate sul sacro, possiamo tutt’al più affidarci all’analisi dei simboli.
Quando il cuore era allenato a discernere il Reale attraverso le cose che formano la realtà quotidiana e la mente non contraddiceva il cuore, le cose stesse erano vivificate e diventavano simboli, trasparenti ricettacoli dello spirito, supporti di meditazione, epifanie del divino. Così il Cavaliere ravvisava nelle operazioni necessarie alla forgiatura della spada altrettanti simboli che richiamavano al cuore, per analogia, le fasi salienti dell’iter compiuto esercitando il suo ufficio. Poeti, maestri e trattatisti spiegarono per secoli Cavalleria agli ignari e ai postulanti mediante simboli pregnanti che ne esprimevano l’essenza e, tra di essi: la spada.
La compatta ma fragile robustezza del minerale che racchiude il ferro non si presenta con la lucente potenza del metallo, ma con i colori oscuri e smorti della terra. Potenza e lucentezza sono ancora prigioniere della compagine di terra e pietra: occorre estrarle con un processo di separazione e purificazione per il quale è necessaria l’opera del fuoco.
Per mezzo di pesanti magli il minerale subisce una previa frantumazione, una mortificazione della sua compattezza che gli permette di essere mescolato con un materiale che, a sua volta, è già stato lungamente esposto al regime del calore, liberato da ogni superflua umidità ed è divenuto quasi fuoco e sole cristallizzato: il carbone. Per mezzo della combustione, alimentata dal sapiente regime dei mantici, il metallo si separa dalla scoria petrosa per armonica azione di soffio e di fuoco e stilla in lacrime dense. Queste dovranno essere raccolte in un crogiolo, sottoposte nuovamente all’azione del fuoco per essere unificate nella fusione del primo pane metallico, ancora impuro, ma già ferro. Successive operazioni di delicata purificazione, per mezzo della fiamma e dell’opera instancabile dei martelli, libereranno dalle scorie residue il ferro e lo sposeranno sapientemente alla cristallina, adamantina virtù insita nel carbone che, nel fuoco, splende come rosa purpurea. Il diamante sta al carbone come il santo e l’eroe stanno alla creatura umana.
In tal modo il ferro diviene acciaio ed è pronto ad essere trasformato in spada.
L’officina del fabbro è chiusa, per tutto il tempo in cui dura l’opera, ai curiosi ed agli estranei. Vi si celebra infatti un mistero: l’opera dell’uomo perfeziona l’opera della natura e la porta a compimento. Un prete ha benedetto la forgia, l’incudine, gli strumenti e l’artefice si è sottoposto al digiuno e all’astinenza rituale e si è raccolto in preghiera seguendo le prescrizioni della propria Arte e i segreti della propria scuola.
Come il monaco prima di dipingere l’icona. Come il Cavaliere la notte prima di entrare in battaglia.
L’artigiano è pienamente cosciente della sacralità della propria opera. È stato iniziato ai misteri del suo mestiere. È nero di fuliggine, gronda sudore ma mormora incessantemente una preghiera ritmando con essa i colpi del martello, o con le litanie, o esclamando «Christus vincit!», affinché tutto l’essere e tutto il cuore accompagnino la nuova creazione.
Il martello colpisce il metallo incandescente che si compatta e si stira, acquista purezza e tenacità. Poi, quando la lama ha assunto la sua forma, viene temprata per duplice azione del fuoco e dell’acqua. E, nel freddo abbraccio dell’acqua, nella quale è stato disciolto sale benedetto, se la lama, dopo il duplice battesimo di fuoco e di acqua, non s’incrina e non si torce, una nuova spada è nata.
Infine l’opera paziente di levigatura per mezzo di pietre, di pulitura e di affilatura fino a raggiungere il nitido splendore.
L’apprendistato del Cavaliere segue analogicamente le fasi della forgiatura della sua spada.
Secondo la tradizione, un monaco, scelto tra i più anziani e saggi, ed un Cavaliere si occupavano di formare il postulante all’Ordine di Cavalleria rispettivamente nella pratica delle virtù cristiane e nella dura disciplina militare. Non si può servire finché non si è divenuti padroni di se stessi. Il dono presuppone una conquista ed un possesso. Il dono cosciente della propria vita richiede la conquistata certezza d’una Vita e di un premio più grandi secondo le parole del Maestro: «… chi perde la vita per causa mia non morrà in eterno».
Lo scopo della formazione cavalleresca è quello di estrarre dalla personalità del neofita quella qualità per cui si è Cavalieri , con un’opera assidua e paziente, alimentando la vocazione innata. Ogni autentica vocazione può solo fondarsi su una latente qualità spirituale per cui si è chiamati ad essere ciò per cui si è nati. Si tratta di riscoprire l’innata virtù, di custodirla e di accrescerla per opera del fuoco della Fede e del soffio dello Spirito. Disciplina è scuola d’umiltà e nobilissima palestra in cui ci si esercita a diventare signori di se stessi: re nel senso più vero e sublime del termine.
Le aspirazioni, i sogni, i desideri che non fanno parte della vera natura vengono inesorabilmente frantumati e dispersi, come le scorie che offuscano lo splendore del metallo. Dio è il fabbro della nuova creazione, il Suo Amore la fiamma della forgia. L’incudine è il mondo e le prove che il mondo quotidianamente pone. Il maglio è la volontà sorretta dalla Fede e l’acqua la cristallina purezza della virtù, il nitido abbraccio della solitudine.
Anche la forma della spada parlava il linguaggio dei simboli. La spada della Cavalleria occidentale durante tutto il medioevo fu dritta , a doppio taglio e con guardia crociata. Immagine della Croce di Cristo, dinanzi ad essa il Cavaliere s’inginocchiava sul campo di battaglia, per pregare.
Nella notte di veglia d’armi che precedeva l’Investitura lo scudiero lungamente sostava dinanzi alla spada adagiata sull’altare meditando che l’accettazione della spada significava la accettazione della Croce.
Spesso sulla lama erano incise cinque croci a immagine delle cinque piaghe del Signore.
Il doppio taglio ricordava la pericolosità della Via militare al Cristo lungo la quale l’ingiustizia apre il cammino trionfale verso la perdizione.
Il doppio taglio simboleggiava anche la duplice battaglia, interiore ed esteriore, che il Cavaliere era tenuto a combattere ed era duplice segno della guerra e della pace come distruzione dell’ingiustizia e conservazione della giustizia.
La tersa lucentezza della lama è simbolo di lealtà e di purezza. Può affermarsi a ragione che la spada era allegoria dell’anima del Cavaliere.
Nessun altro simbolo può prestarsi meglio della spada ad esprimere il senso e l’essenza della Via del Cavaliere. Nessun’altra arma ha potuto mai soppiantarne il valore, né l’arco e la freccia che silenziosamente colpisce da lontano, né l’obliqua e perversa natura dell’arma da fuoco.
Dopo la vittoria il Cavaliere s’inginocchia in silenzio per dar grazia al Dio degli eserciti. Dopo la sconfitta la stringe al petto, come segno di compimento della Via della Croce o si distende sulla spada, croce ed altare militare, come il Maestro sul legno della Croce. Come Orlando a Roncisvalle.
La spada ha una personalità propria infusa dall’artefice che la forgiò e dal Cavaliere che la scelse come sua compagna di avventura, di preghiera, di lotta e di morte. Non è da stupirsi, pertanto, che le spade più antiche, leggendarie o reali, avessero un nome. Come lo avevano le spade dell’epopea celtica e germanica.
Excalibur, Durandal, Joyeuse, Hauteclaire… nomi che ne esprimevano l’eccellenza del taglio, la flessibile durezza, il corrusco splendore.
Il nome della spada di Re Carlo, Joyeuse, « Gioiosa », comunica un brivido dell’antica, serena grandezza che animava i barbari convertiti al Cristo per i quali la guerra era una festa, preludio d’un’eterna festa nel cielo degli eroi. La stessa serena grandezza — neppure confortata dalla speranza d’un premio nei cieli — che permetteva agli spartiati di coronarsi di fiori nell’imminenza della battaglia e di avviarsi nudi, cantando, a morire.
(fine)