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Caratteristiche della Cavalleria Cristiana: esercizio della regalità e via dell’azione (di Gianluca Marletta).

 

Al giorno d’oggi l’idea e la realtà della Cavalleria cristiana sono pressoché misconosciute ai più, o peggio ancora soggette ad equivoci ed interpretazioni fuorvianti e persino pericolose. E tuttavia mai come oggi – nello sbandamento generale dei tempi che colpisce lo stesso mondo ecclesiale – la Chiesa sembra aver bisogno di quella “funzione cavalleresca” la cui presenza pare al contrario essersi eclissata negli ultimi secoli.
Ma per comprendere l’importanza della funzione cavalleresca, è necessario innanzitutto definire il carisma e le caratteristiche della Cavalleria in quanto tale, purificandone l’immagine non solo dalle interpretazioni più parodistiche e travianti, ma anche da quell’aura sentimentalistica e “romantica” che non di rado la avvolge e la relega in una dimensione tanto “fiabesca” quanto inconsistente.

Per definire la Cavalleria bisogna innanzitutto ricordare che essa ha come carisma e scopo quello di attualizzare eminentemente la funzione regale all’interno della Chiesa.
La Dottrina cattolica afferma che, all’atto del Battesimo, il cristiano è rivestito dei tre “uffici” che promanano dal Cristo stesso (Sacerdote, Re e Profeta). Questi uffici sono infusi su tutti i fedeli, ma ciò non toglie che essi vengano attualizzati in maniera eminente soprattutto in alcuni individui chiamati a ricoprire una specifica funzione.
Prescindendo per il momento dall’ufficio profetico (che per definizione, e come dimostrano le Scritture e la storia, non è in alcun modo “istituzionalizzabile” o relegabile ad un ambito esclusivo), l’ufficio sacerdotale è esercitato in maniera eminente nella funzione del Sacerdozio Ordinato.
L’ufficio regale è invece attualizzato eminentemente da chi è chiamato ad esercitare questa funzione: ovvero, nella cristianità tradizionale, dai Sovrani “unti” e dai Cavalieri “investiti” (1).
Tali considerazioni potranno verosimilmente apparire “fuori tempo”, forse persino incomprensibili agli occhi di molti cristiani e cattolici contemporanei, i quali, pur in buona fede, sono spesso fortemente condizionati da una visione secolarizzata della realtà umana. E tuttavia, alla luce delle Scritture e della storia della Chiesa è innegabile che la funzione regale e la sua attualizzazione eminente siano sempre state un necessario complemento e un pilastro del Popolo di Dio durante tutta la sua vicenda terrena.
La Regalità , letteralmente, è la funzione “ordinatrice” del mondo. La radice indoeuropea *regs-, da cui il termine deriva, è la stessa che dà origine a tutta una serie di parole ricollegabili al concetto di “ordine”, “rettitudine”, “diritto”, “armonia”, “giusta legge” (re, regola, dirittura, diritto, realtà, cfr. l’inglese right, ecc.).
Nel Cristianesimo la Regalità è la funzione di “ordinare il mondo” in conformità con il Logos, con la legge e con l’armonia divine, con il messaggio del Vangelo.
La Regalità è la “cinghia di trasmissione”, lo strumento attraverso il quale il messaggio di Cristo si irradia nel mondo in maniera efficace (reale), il mezzo per il quale il mondo non rimane più “mondo profano”: mondo secolarizzato e lontano da Dio, ma per il quale esso è redento è ri-portato al Suo Creatore finanche nelle espressioni più terrene.
Da questo punto di vista, è evidente che il declino o persino la scomparsa della funzione regale, esercitata eminentemente, sia stata negli ultimi secoli la principale causa della decadenza generale della Cristianità nonché dell’indebolimento, che oggi sembrerebbe oltretutto irreversibile, della sua forza di “trasmettitrice di civiltà”. Il Cattolicesimo, infatti, privato della propria funzione regale é divenuto sempre più una religione “clericale”, dove tutto ciò che appartiene alla Fede è visto come “materia attinente ai soli Sacerdoti” da cui i semplici laici possono attingere solo indirettamente e secondariamente.
Al tempo stesso, il ritrarsi della religione nell’ambito esclusivamente clericale ha favorito quell’indifferenza (quando non, addirittura, ostilità) del mondo laico verso la Chiesa, che attraverso inesorabili e consequenziali passaggi (fine del Sacro Romano Impero, affermazione dell’assolutismo regio, nazionalismo, protestantesimo, laicismo, massoneria) ha generato quel mondo secolarizzato e “senza Dio” che non è altro che la ricaduta terminale di un coerente e medesimo processo secolare.
Ulteriori conseguenze possono oramai riconoscersi anche nella riduzione dell’atto di fede a mero esercizio sentimentalistico quasi del tutto privo di sapienzialità, a soggettivismo emozionalistico, a svirilimento dell’uomo nel proprio rapporto con Dio e con il prossimo.
Questo processo non ha conosciuto sosta nemmeno quando, a partire dal Concilio Vaticano II, si è voluto riconoscere ai laici un ruolo specifico nell’ordinare a Cristo le cose del mondo (Christifideles Laici). Ciò, proprio perché non si è riconosciuta la funzione di una regalità “eminentemente esercitata”: seppur essa, nel concreto, non possa mai essere alla portata di tutti i laici indistintamente.

In realtà, la soluzione a questo problema è sempre esistita nella Tradizione Cattolica: ed è appunto la funzione cavalleresca.
Anzi: riteniamo che oggi più che mai la Via cavalleresca possa essere la risposta più idonea per tutti quei fedeli – laici e non – che si sentano chiamati alla ricerca di un più vero e coerente cammino che presuma di servire più efficacemente Cristo nella Sua Chiesa.
Da questo punto di vista, dunque, la Cavalleria non è altro che l’attualizzazione dell’ufficio regale (seppur posto su di un piano differente e comunque parallelo a quella che è l’unzione dei Sovrani e degli Imperatori): a tal fine, la Chiesa ha elaborato da secoli uno specifico rito di consacrazione (Sacramentale Costitutivo) allo scopo di ordinare il Cavaliere. Nessuno, infatti, può pensare di essere Cavaliere a prescindere dalla benedizione che solo la Chiesa può impartire e che, almeno alla sua origine, deve necessariamente avere come sua fonte un Vescovo.

Ma, più concretamente, in cosa deve consistere, ai nostri giorni, l’esercizio della funzione cavalleresca?
Certamente uno dei campi di battaglia della Cavalleria al giorno d’oggi – anche se non il solo – può essere il mondo della cultura e dell’informazione; ovvero quella sfera dove si forma la “mentalità” dominante, indispensabile per veicolare il messaggio del Vangelo – una sfera ormai da tempo invero decristianizzata e secolarizzata.
E tuttavia, volendo tornare su un piano più “essenziale”, prim’ancora che definire il tipo d’azione che la Cavalleria deve compiere, è importante capire cosa la Cavalleria sia. Essendo una Via esistente da sempre, infatti, la Cavalleria possiede alcune caratteristiche che sono costitutive e immutabili e che in nessun modo cambiano “col tempo”.
Un aspetto immutabile della funzione cavalleresca è la vocazione al combattimento: il cavaliere è chiamato ad essere, nel tempo, l’immagine del Cavaliere dell’Apocalisse, del Cristo esercitante la Giustizia contro le tenebre dell’empietà. La sua funzione è quella di combattere la menzogna e di “raddrizzare” le vie; il tutto con spirito di “sacrificio” (sacrum-facio).
E’ però fondamentale comprendere che il combattimento cavalleresco, nell’atteggiamento e nell’obbiettivo, è ben diverso da quello profano. Per prima cosa, infatti, Cavalleria è “combattimento interiore” contro tutto ciò che ostacola e oscura l’Immagine di Dio in noi (peccato, imperfezione, passione disordinata). Solo in quanto riflesso e conseguenza di questa Grande Guerra il Cavaliere può pertanto impegnarsi anche nella piccola guerra che consiste nel combattere quelle forze e quelle strutture che, nel mondo esteriore, manifestano le istanze dissolutive e peccaminose.

In secondo luogo, ciò che caratterizza la Cavalleria è l’essere una Via dell’azione: ma anche in questo caso bisogna precisare cosa si intenda con tale espressione.
Via dell’azione, infatti, non è da intendersi affatto come uno sminuire la necessità assoluta della Contemplazione, che è il fine ultimo del cristiano e d’ogni uomo degno d’essere definito tale. Al contrario, il Cavaliere deve fare della preghiera il suo nutrimento incessante, pena il perdere la sua dignità e il confondersi con i tanti “attivisti” e “militanti” ideologici di cui, al giorno d’oggi, è pieno questo mondo de-centrato e in perpetua agitazione. Via dell’azione, al contrario, significa che per il Cavaliere l’azione diviene la base stessa della Contemplazione.
Ma come è possibile far in modo che l’azione non distolga il Cavaliere dalla Contemplazione (rischio concreto e temibile per ogni cristiano che, come si suole dire oggi, “è impegnato nel mondo”)? Da questo punto di vista, è necessario che il Cavaliere operi una reale conversione (metànoia, “trasformazione della mente”) giungendo ad un cambiamento di prospettiva radicale. Infatti, finché il singolo – l’individuo – permane nella convinzione che gli atti da lui compiuti gli appartengano, egli permane ancora su di un piano esteriore (ed illusorio) della realtà dove al centro dell’esistenza non vi é nient’altro che l’ego.
Un Cavaliere o qualsiasi cristiano possono compiere grandi opere di misericordia, di virtù e di coraggio; ma nella misura in cui egli non esca dalla pretesa che “le azioni siano proprie”, che “i meriti siano propri”, che “la fonte prima sia il proprio io”, il pericolo di generare un super-ego superbo e prometeico è sempre dietro l’angolo. In tal caso si ingenera oltretutto una confusione tra l’evangelica carità e la mera filantropìa!
Già l’idea che un Cavaliere possa “combattere per Dio” o che un cristiano “lavori per Dio” (immagine suggestiva e motivante, ma estremamente antropomorfica e che rischia di veicolare l’idea di una Divinità che avrebbe bisogno dell’individuo contingente per compiere i suoi disegni) non è priva di pericoli e di equivoci; e rimanda, in ogni caso, ad una prospettiva esteriore dell’esperienza spirituale e religiosa.
La realtà delle cose implica al contrario che il Cavaliere interiorizzi e comprenda progressivamente che non è lui che “combatte per Dio”, ma che è Dio che combatte attraverso di lui e per mezzo di lui. Il Cavaliere non è un individuo che porta la spada “per conto di Dio”, ma è lui stesso la spada di Dio nel mondo.
Comprendere che le azioni sante non sono dell’individuo ma di Dio, compiere le azioni non solo “per Dio” ma “in Dio”, svuotare il vaso dell’essere dalle pretese egoiche affinché solo Dio operi e solo Dio sia, è in realtà il vero irrinunciabile traguardo del cammino della Cavalleria.
Da questo prospettiva – che è poi l’unica realmente divina e spirituale –, con il lasciare che sia Dio ad operare in noi facciamo sì che anche il più umile e semplice dei servizi, o anche solo dei gesti compiuti, si costituisca come infinitamente più santo e più grande di un’impresa seppur mirabile e grandiosa, la quale tuttavia illusoriamente rimane immaginata e concepita come “compiuta da noi stessi”.
Ed è proprio questo, da un certo punto di vista, il significato di quella misteriosa Coppa del Graal che negli antichi romanzi i Cavalieri cercano: un vaso vuoto (il proprio essere svuotato dall’ego illusorio) che attende di essere riempito dal Sangue Divino. Così come, nella vicenda evangelica, la Tomba donata a Cristo da Giuseppe d’Arimatea (dove si compirà l’evento della Resurrezione) è una “tomba nuova”, dove nessun’altro è stato mai sepolto: simbolo della purezza e della verginità (non solo fisica ma essenziale) che sono indispensabili affinché si compia l’Opera Divina in noi.

 

Il presente scritto è stato pubblicato sul seguente blog:

www.ilpensierocattolico.it (18.04.18)

 

(1) Precisiamo che è solo analogicamente che il Sacerdozio ordinato e la Regalità possono essere paragonati, stante la radicale differenza di dignità tra il Sacramento ed il sacramentale che costituiscono le due funzioni. Tale differenza, del resto, discende direttamente dalla superiorità essenziale dell’ufficio sacerdotale rispetto a quello regale. La Regalità, espressione della Regalità di Cristo, riguarda anche l’ambito del “sociale” (cfr. Pio XI, enciclica Quas Primas).